Fritz Lang
SINOSSI: Prima parte: La morte di Sigfrido. Dopo aver temprato una spada presso i suoi maestri, i nani (o Nibelunghi), il giovane Siegfried decide di viaggiare verso Worms sul Reno dove vive la bellissima Kriemhild, regina dei Burgundi. Lungo la strada uccide un drago e si bagna nel suo sangue, ottenendo l’invulnerabilità. Quando incontra il nano Alberich, che tenta di ucciderlo, lo costringe a rivelargli il nascondiglio del tesoro dei Nibelunghi. Divenuto ricco e invincibile, Siegfried giunge con uno stuolo di re suoi vassalli a Worms e si presenta al re Günther. Costui lo sfida ad aiutarlo a vincere la superbia di Brunhild, regina-guerriera di Iseland: se Siegfried riuscirà a sconfiggerla, allora il re gli darà Kriemhild in sposa. Grazie a un elmo magico che gli dona l’invisibilità, Siegfried riesce a vincere tutte le prove di lotta e abilità contro Brunhild. Avviene così il doppio matrimonio e il patto di sangue fra Siegfried e Günther. In seguito, però, Siegfried confessa a Kriemhild la verità sulla sconfitta di Brunhild. Kriemhild, a sua volta, si lascia sfuggire la verità proprio con Brunhild che decide di vendicarsi. Raccontando a Günther la bugia secondo la quale Siegfried le avrebbe preso la verginità, induce il re a tradire il suo amico, affidandone l’esecuzione al fido Hagen Tronjie, che nel frattempo ha scoperto l’unico punto vulnerabile di Siegfried. E così lo uccide a tradimento durante una battuta di caccia. Kriemhild chiede giustizia al fratello, ma tutti a corte si schierano dalla parte di Hagen.
Seconda parte: La vendetta di Crimilde. Kriemhild sposa Etzel (Klein-Rogge), re degli Unni, facendogli promettere che vendicherà ogni torto da lei subito. Poco dopo i due hanno un figlio. Kriemhild induce il re a invitare i parenti di lei. Lui la asseconda, ma quando lei gli chiede di uccidere l’assassino del suo primo marito, Etzel si rifiuta per via della legge dell’ospitalità. Kriemhild compra con l’oro la fedeltà di alcuni sicari unni. Durante un banchetto avviene il tentativo di assassinio, ma i burgundi reagiscono prontamente e Hagen uccide il figlioletto di Etzel e Kriemhild. Assediati nel palazzo reale, e rifiutandosi fino all’ultimo di consegnare Hagen, i burgundi cadono uno dopo l’altro sotto il ferro dei nemici e poi sotto le fiamme del palazzo a cui è stato dato fuoco. Alla fine Kriemhild riesce a uccidere Hagen, ma subito dopo viene uccisa a sua volta.
Dopo il grande successo internazionale dei suoi due film precedenti, Der müde Tod (Destino, 1921) e Dr. Mabuse, der Spieler (Il dottor Mabuse, 1922), Fritz Lang è ormai la stella di punta del cinema tedesco. Nel frattempo la Decla di Erich Pommer è stata assorbita dalla Universum Film AG (UFA), con a capo sempre Pommer, che ha inglobato in sé anche la filiale tedesca della Nordisk, la May-Film di Joe May e la Union, ed è ora compagnia più grande d’Europa, nonché fiore all’occhiello della malridotta economia della Germania di Weimar. Una Germania che va facendosi sempre più nazionalista, tanto è vero che, una decina d’anni dopo, Goebbels, già Ministro della Propaganda del Reich e grande ammiratore della prima parte di Die Nibelungen, proibì la ridistribuzione del secondo episodio, che giudicava troppo cupo e, probabilmente, disfattista. Eppure proprio quel secondo episodio, quando uscì, fu da alcuni giudicato duramente poiché videro nella rappresentazione degli Unni, così barbarici e animaleschi, la proiezione di quella teoria sull’inferiorità delle razze non ariane che troverà il suo coronamento l’anno seguente nella pubblicazione del Mein Kampf. Ma nonostante l’adesione al nazismo alcuni anni dopo di Thea von Harbou, coautrice del film e moglie di Lang, il film oggi sembra quanto mai fedele alle intenzioni dichiarate dallo stesso regista: semplicemente quello di celebrare e diffondere a livello internazionale la cultura e lo spirito del suo paese, al cui popolo il film è esplicitamente dedicato in apertura. E non si può certo imputare retroattivamente a Lang se da quella magnificenza decorativa e formale trassero poi ispirazione le coreografie delle parate del Terzo Reich.
Quello che invece è certo è che a Lang e a von Harbou interessava riprendere e articolare il tema sul potere: lo avevano già fatto in Dr. Mabuse e torneranno a farlo in Metropolis (1927). Nel primo film si trattava di un potere solo apparentemente impersonificato in un unico criminale/tiranno, dato che la natura da uomo dai mille volti di Mabuse riproblematizzava subito la questione nei termini di un potere diffuso, ramificato in tutti gli strati della società; in Metropolis, dietro la “copertura” della fantascienza, assumerà le forme di una esplicita lotta politica di classe, lotta che il finale si sforzerà alquanto goffamente di pacificare; nei due film che compongono Die Nibelungen, invece, il potere assume una qualità preminentemente visiva, monumentale, decorativa, al tempo stesso potente e vuota, eterna e fuori dal tempo. Un potere tuttavia soggetto alla impietosa legge del fato (come vi era soggetta la stessa Morte in Der müde Tod), della predestinazione, che si esprime per il tramite di una legge ferrea di causa ed effetto. E quest’ultima, una volta messa in moto, non risparmia niente e nessuno. Eppure sono ancora e sempre gli uomini a mettere in moto tale catena del destino e a perpetrarla, tramite le loro scelte più o meno consapevoli e loro azioni. Nessuno si sottrae a questo meccanismo implacabile, neanche quando (forse) potrebbe farlo. E il secondo dei due film è, sotto questa luce, un presagio più cupo che mai rispetto agli eventi che la Storia andava già covando.
Riguardo alla trama del film, più che alla titanica Tetralogia wagneriana, Lang e von Harbou si rifanno direttamente all’Anonimo del Nibelungenlied (La canzone del Nibelungo), il poema epico in quartine del XIII secolo, del quale seguono con fedeltà la ripartizione in due vicende principali e la suddivisione in canti (sette per ognuno dei due film, laddove nel poema sono trentanove). Ne asciugano però gli innumerevoli episodi per concentrarsi sui nuclei narrativi principali. La differenza stilistica fra i due film – girati uno dietro l’altro nell’arco di nove mesi, con una pausa nella stagione invernale – è evidente e si tratta di una scelta ben precisa: nel primo si mettono in scena, per una buona parte, la primavera, l’amore, l’idealizzazione, l’armonia; nel secondo, l’inverno, l’odio, la tragedia, il caos. Ne La morte di Sigfrido le composizioni sono stilizzate, simmetriche, i personaggi sono parte integrante delle scenografie monumentali; i primi piani sono rari, mentre abbondano i campi lunghi o medi o il piano americano, e i pochi attori si esprimono con una recitazione ieratica, tendente all’immobilità della posa, vivificati da una luce non piatta ma uniforme; ne La vendetta di Crimilde prevalgono invece un dinamismo sempre crescente e l’impiego di un gran numero di comparse, dominano i primi piani (specialmente sul volto di Kriemhild), l’illuminazione si fa contrastata e drammatica, grazie alle riprese notturne – già sperimentate con successo nel film precedente – e va a deflagrare nelle fiamme del gigantesco incendio finale, in cui fu dato fuoco a un intero set a grandezza naturale. L’armonia luminosa del primo film è persa per sempre, qui le ombre della disfatta e della morte incombono su tutti e, a differenza dell’opera wagneriana, non c’è salvezza né redenzione per nessuno.
Per certi versi, La morte di Sigfrido sembra volutamente un film “primitivo”, girato nel decennio precedente, con tanto di trucchi e attrazioni: il drago (un vero e proprio “giocattolo” meccanico lungo diversi metri e manovrato al suo interno da più uomini), il tesoro, la pietrificazione dei nani, le apparizioni fantasmatiche di Siegfried accanto a Gunther (ma invisibile a tutti gli altri). Le stesse scenografie destano meraviglia e ammirazione, come avveniva in Cabiria (1914) di Pastrone o in Intolerance (1916) di Griffith: le mura squadrate del castello di Worms am Rhein, le sue ampie arcate e il ponte levatoio che si leva sull’abisso, attraversato da una fila di soldati ripresi da lontano come formiche (una delle immagini più evocative del film); o la terra di Iseland (una sorta di Islanda mitologica) su cui regna Brunhild, con quel paesaggio brullo e fumoso e il castello diroccato circondato dalle fiamme. La narrazione, dunque, passa più per la composizione che per l’azione e si fa dipinto, miniatura, in una sorta di astrazione e idealizzazione delle forme, pura esteriorità (il patto di sangue fra Gunther e Siegfried e il matrimonio di quest’ultimo con Kriemhild). I personaggi principali, psicologicamente pressoché azzerati, si fanno icone, mente le innumerevoli comparse fungono da forme geometriche, elementi scenografici, reificazioni: «Il corpo umano isolato viene trattato come un elemento decorativo, assolutamente statico, privato di una vita individuale e congelato nella sua simmetria»[1]. O, ancora: «le persone, le comparse, appaiono senza faccia in questo mondo stilizzato di eroi poiché costituiscono una sorta di coro, senza alcuna funzione nello sviluppo dell’azione»[2]. Un esempio per tutti: la fila dei soldati burgundi nell’acqua, con gli scudi sollevati a fare da pontile per lo sbarco di Brunhild.
Viceversa, ne La vendetta di Crimilde, c’è un ritorno ai personaggi e alle loro emozioni e pulsioni, al centro dei quali c’è appunto Kriemhild, il personaggio più tragico del dittico: per la sua implacabile caccia agli assassini, Lotte Eisner la paragona giustamente all’Elettra di Sofocle[3]. Ma nella donna che, una volta perduto il suo amore, si scaglia contro il muro di pietra del senso dell’onore e di lealtà degli uomini, che si proteggono fra loro, sembra di scorgere anche Antigone, che non può riposare finché non ha definitivamente seppellito il suo amato (come testimonia il fazzoletto di terra che si porta dietro). Nonché una contorta, disperata Medea che dà alla luce un figlio non per amore (né del bimbo, né tantomeno del suo consorte Etzel/Attila), ma unicamente per legare a sé, con una decisione disumana (o di chi è già morta, come ella stessa afferma), l’unico uomo in grado di compiere la sua vendetta.
Tutto questo si riflette in primo luogo, drasticamente, nel cambio di ambientazione: l’edificio di Attila è la caricatura di un palazzo reale, in realtà poco più della tana di una belva feroce e dei suoi innumerevoli sudditi-famigli, un branco di selvaggi. Ed è proprio qui, nel fango e nella barbarie che le perfette forme e le pure linee che rappresentano le coordinate esistenziali dei Burgundi si spezzano, nel ritmo indiavolato dell’azione, nei mutamenti continui degli assi di ripresa, nel montaggio che macina e spezzetta sempre più le immagini, alternando la progressione del massacro ai primi piani di Kriemhild, sofferente ma imperturbabile nel suo desiderio di giustizia e di vendetta. Ovviamente lo stacco non è così netto: negli ultimi due canti del primo film, con l’approssimarsi dell’uccisione di Siegfried, l’armonia si incrina e ciò si manifesta anche tramite una maggiore attenzione riservata ai singoli personaggi, colti nella solitudine dei loro tumulti interiori, nonché sullo stile visivo (ad esempio la rete di ombre che va a gravare sulla figura Brunhild, seduta immobile nella sua stanza in attesa del compiersi dell’esito della sua menzogna); così come, all’inizio del secondo film, ritroviamo una composizione perfettamente geometrica – anche se ricca di pathos – nell’addio di Kriemhild al suo amato, con la donna in piedi dinnanzi alla tomba di pietra di lui e, tutt’attorno, di profilo, le sue ancelle nascoste dietro le loro cappe e i loro mantelli, le teste leggermente inclinate a seguire la curvatura della volta della cripta.
Le foreste e le altre splendide scenografie in esterni furono realizzate sul terreno intorno agli studi di Neubabelsberg, utilizzando vero terriccio e muschio, mentre i tronchi d’alberi furono costruiti in cemento e fiori di stoffa, fra rimandi a Böcklin e ad altri artisti. Fiori veri e neve vera se ne vedono solo, rispettivamente, nella scena della morte di Siegfried presso la sorgente e in quella, speculare, di Kriemhild inginocchiata presso quella stessa sorgente, in inverno, intenta a scavare sotto la neve per prendere con sé un po’ di quella terra che ha bevuto il sangue del suo amato. Naturalmente, in un’opera concepita totalmente in termini visivi, se non visionari, l’illuminazione è fondamentale e Lang poté avvalersi una volta di più della collaborazione del suo insostituibile braccio destro, Carl Hoffman. Mentre, per quanto riguarda l’invenzione degli effetti speciali in macchina fu essenziale il contributo del secondo operatore, Günther Rittau, che non solo creò in modo del tutto artificiale sia l’arcobaleno che l’aurora boreale, ma rese anche possibile la pietrificazione dei nani e di Alberich nella caverna, attraverso una serie di sovrimpressioni che, partendo dal basso, proseguono gradualmente verso l’alto. Lang si servirà ancora di Rittau per Metropolis e lo stesso Rittau diventerà poi regista alla fine degli anni Trenta. Un altro apporto fondamentale fu dato da Walter Ruttmann, avanguardista e sperimentatore, che disegnò e animò il sogno premonitore del falcone e delle aquile di Kriemhild nella prima parte.
Per i costumi Lang si avvalse nuovamente della consulenza di Heinrich Umlauff, direttore del Museo Etnografico di Amburgo, in particolare per quanto riguarda gli Unni, vestiti di e stracci e armati con lame di foggia asiatica, come la scimitarra di Attila a forma di falce. Il trucco del re degli Unni, con quel cranio squadrato e il mento finto, rende ancora più formidabile l’interpretazione di Rudolf Klein-Rogge (ex dottor Mabuse ed ex marito di Thea von Harbou). Truce e spaventoso nella sua prima apparizione, una delle più belle fra le inquadrature-ritratto del film, assieme a quella, peraltro simile, di Hagen, anche lui seduto con la spada in grembo. Ed è indimenticabile la scena in cui gli appare dinnanzi per la prima volta Kriemhild e se ne innamora a prima vista: una fiera che improvvisamente diventa docile e spaurita come un cucciolo. Cogliendo nello sguardo altero di lei il disgusto per la sporcizia accumulata sul suolo del suo palazzo, l’unno si toglie il suo prezioso mantello e lo getta in terra ai suoi piedi, perché le faccia da tappeto.
L’influenza di un tale apparato visivo come quello che appare in Die Nibelungen, e particolarmente nel primo dei due film, si farà sentire nel corso dei decenni, a partire dalle saghe storiche dell’ultima parte della carriera di Ejzenštejn fino a un film visivamente impressionante come Legend (1985) di Ridley Scott. Mentre per quanto riguardo l’approccio antipsicologico dei personaggi, in una dimensione formale che unisce pittura, staticità e miniature, è impossibile non pensare all’opera di Sergej Paradžanov.
Vittorio Renzi (28 novembre 2016)
Die Nibelungen (I Nibelunghi)
[a.k.a. La canzone dei Nibelunghi / The Nibelungs]
1.Teil: Siegfried Tod (La morte di Sigfrido)
2.Teil: Kriemhilds Rache (La vendetta di Crimilde)
Germania, 1924
regia: Fritz Lang
soggetto: Poema L’anello dei Nibelunghi (Anonimo).
sceneggiatura: Thea von Harbou
fotografia: Carl Hoffmann e Günther Rittau
musica: Gottfried Huppertz
scenografia: Otto Hunte e Karl Vollbrecht
costumi: Paul Gerd Guderian e Aenne Willkomm
ideazione del drago: Karl Vollbrecht
effetti speciali: Günther Rittau
produzione: Erich Pommer, per Decla-Bioscop AG / UFA
cast: Gertrud Arnold (regina Ute), Margarete Schön (Kriemhild), Hanna Ralph (Brunhild), Paul Richter (Siegfrid), Theodor Loos (re Gunther), Rudopf Klein-Rogge (re Etzel), Hans Carl Müller (Gernot), Erwin Biswanger (Giselher), Bernhard Goetzke (uomo da Alzey), Hans Adalbert Schlettow (Hagen Tronje), Georg John (Mime il fabbro/Albreicht/Slaodel), Hubert Heinrich (Werbel), Rudolf Rittner (Rüdiger von Bechlarn), Annie Röttgen (Dietlind, sua figlia), Fritz Alberti (Dietrich von Bern), Georg August Koch (Hildebrand), Grete Berger, Hardy von Francois, Frida Richard, Yuri Yurovsky, Iris Roberts
lunghezza: 3.216 metri + 3.576 metri
durata: 140’ +143’
première: Berlino, 14 febbraio 1924 / 26 febbraio 1924
[1] Lotte H. Eisner, The Haunted Screen, University of California Press, 1952, p. 166 (traduzione mia).
[2] Lotte H. Eisner, Fritz Lang, New York, Da Capo Paperback, 1976, p. 73 (traduzione mia).
[3] L.H. Eisner, The Haunted Screen, op.cit., p. 169.