Die Augen der Mumie Ma (Gli occhi della mummia, 1918)

Ernst Lubitsch

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SINOSSI: Il pittore Wendland, recatosi in Egitto, vuole andare a vedere una mummia che terrorizza tutti quelli che visitano la sua tomba. Ad attenderlo nei pressi della tomba c’è il sacerdote fanatico Radu. Qui Wendland scopre il trucco: gli occhi vivi che appaiono da dietro a un muro forato, e che terrorizzano i visitatori, appartengono in realtà a una ragazza viva, Ma. Dopo aver messo fuori combattimento Radu, il pittore ascolta la triste storia della ragazza, rapita e poi segregata dal malvagio Radu. Wendland decide così di portare con sé Ma in Germania e lì i due si sposano. Nel frattempo il sacerdote ferito viene rinvenuto da una spedizione guidata dal principe Hohenfels, che a sua volta porta Radu con sé in Germania, come suo servitore. Qui Radu giura a se stesso di ritrovare Ma e di vendicarsi. I due si rincontrano proprio in casa del principe, che ha invitato Ma e suo marito ad ammirare la sua collezione di oggetti d’arte. Terrorizzata, Ma perde i sensi. Successivamente, Radu, avendo scoperto dove abita, penetra nella casa mentre Wendand è assente e Ma, la cui salute è già minata, muore dallo spavento. Radu si suicida accanto a lei.

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Negli anni del primo dopoguerra, la Universum-Film (UFA), fondata nel 1917, inizialmente con obiettivi nazionalistici e di propaganda, si era messa in testa di fare concorrenza al cinema hollywoodiano e ci stava riuscendo, grazie in particolare ai successi di registi come Joe May e soprattutto Lang e Murnau, che esordiranno entrambi di lì a poco. In quegli anni anche Ernst Lubitsch si ritrovò coinvolto, suo malgrado, nei grandi melodrammi storici o esotici in costume che costituivano la principale sfida ai kolossal d’importazione statunitense. Fino a quel momento, il giovane talento berlinese di famiglia ebraica aveva diretto già diversi cortometraggi (la maggior parte dei quali oggi scomparsi) di genere comico, il suo favorito sin da allora. Aveva iniziato come attore di teatro (nella scuderia di Max Reinhardt) e successivamente era passato al cinema. Dopo aver preso parte a film di altri e aver diretto se stesso diverse volte, aveva compreso che il suo posto era esclusivamente dietro la macchina da presa. Fu la sua amica Pola Negri a fare il suo nome, dirottandolo verso una carriera basata su film altamente spettacolari. Separatosi in via provvisoria dalla sua prima attrice comica, la bravissima Ossi Oswalda, Lubitsch iniziò così a fare coppia fissa con la Negri per un certo numero di grosse produzioni il cui successo aprì ad entrambi le porte di Hollywood.

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Il talento del futuro commediografo si può pregustare, per certi versi, nelle scene amorose fra Wendland e Ma. Mentre sono in viaggio in nave verso l’Europa, i due sono seduti a un tavolo del ristorante. Mentre sorseggiano un tè, la ragazza si sforza di comportarsi come si conviene, ma poi la “selvaggia” che è in lei ha la meglio e inizia a divorare un pasticcino, tra le risate fragorose dell’uomo. In seguito, mentre è nella ricca casa di Wendland, in presenza di una istitutrice privata (che la sta preparando per la sua entrata in società), Ma si fa distrarre da un gattino che le si arrampica addosso e poi le sfugge e, mentre la donna continua con la sua lezione, Ma si mette ad inseguire carponi il micio per tutta la stanza. Sono momenti che ricordano da vicino il Pigmalione di George Bernard Shaw, portato sulle scene con grande successo solo cinque anni prima (1913). Ma questa traccia più lieve, anche se non propriamente comica, è subito abbandonata in favore delle esigenze dell’intreccio, che procede stancamente e si trascina verso un finale prevedibile, senza molte frecce al suo arco né particolari colpi di scena.

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Per introdurre sua moglie nell’alta società, Wendland dà un ricevimento. La bella Ma sembra riscuotere apprezzamento da parte degli invitati. Ma è solo quando, annoiata, la ragazza indossa degli abiti di foggia orientale e si lancia in una danza esotica e sensuale che tutti i presenti ne rimangono stregati. Grazie a questa performance, Ma viene notata da un impresario teatrale, che è uno degli invitati al ricevimento, e ottiene così un contratto come ballerina. La sera della sua prima esibizione, però, a spettacolo quasi concluso, la donna avvista nella loggia del principe la sinistra figura di Radu e, terrorizzata, perde i sensi. Nella scena immediatamente successiva del viaggio di ritorno in carrozza di Ma e Wendland, Lubitsch, che non è mai stato molto attratto dall’estetica espressionista, si avvale di forti chiaroscuri per sottolineare l’incombente, fosca minaccia. Non si tratta in realtà né dell’unico momento, né dell’unico film in cui ne fa uso. Come ci fa notare la sempre acuta Lotte Eisner:

Per Lubitsch (…) la storia  non era che un pretesto per raccontare storie d’amore in sontuosi costumi d’epoca (…). Preoccupato per le spese extra, Lubitsch raramente ricorreva all’uso del contrasto tra luci e ombre che i suoi contemporanei inseguivano. La sua tipica mentalità berlinese, mai tentata dai sogni e dal mistero – Il cielo e l’inferno possono entrambi attendere – è all’origine della sua tecnica a volte estemporanea, fino al giorno in cui la sua sagacia non gli fece comprendere che aveva tutto da guadagnare nell’uso del famoso “chiaroscuro”.[1]

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I forti contrasti luministici a significare tensione e angoscia si trovano anche, nella prima parte, nella scena del breve flashback in cui Ma racconta a Wendland del suo rapimento da parte di Radu – avvenuto due anni prima – e della sua lunga prigionia nella tomba. Un altro momento di forte impatto e di ingegno della messa in scena è quella in cui Ma, in casa del principe Hohenfels, vede per la seconda volta Radu. La donna è seduta in salotto, assieme al marito e al principe. Davanti a lei c’è uno specchio, dal quale la donna avvista Radu, in piedi presso una tenda. Gli altri due uomini non si accorgono della sua presenza, mentre Ma, terrorizzata, fissa lo sguardo torvo dell’uomo alle sue spalle, attraverso l’immagine riflessa nello specchio. Il personaggio di Radu è uno dei primi ruoli da villain del trasformista Emil Jannings, una delle maschere imprescindibili del cinema muto tedesco, nonché uno dei suoi massimi interpreti, che per Lubitsch aveva già recitato nella commedia breve Das fidele Gefängnis (The Happy Jail, 1917).

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Il finale è tutto un precipitare tragico degli eventi, in cui ci rendiamo conto che il profondo odio e la sete di vendetta di Radu nei confronti di Ma, sono dettati in realtà dal suo amore verso la donna. A livello figurativo, Lubitsch ce la mette tutta sconfinando quasi nel cinema dell’orrore: l’irruzione di Radu nella casa di Wendland, dove Ma si trova sola e indifesa, ha inizio con l’inquadratura di una mano aperta e minacciosa dell’uomo sul vetro della finestra. Il confronto decisivo fra i due avviene in cima a una piccola scalinata dalla quale la donna precipiterà senza vita prima ancora che Radu abbia potuto pugnalarla. Disperato per la sua morte, nonostante l’avesse a lungo agognata, l’uomo rivolge il pugnale contro il suo stesso petto. Il film fu un successo, ma è da copioni assai più validi Lubitsch che potrà trarre giovamento nell’immediato futuro, non solo dalle prime grandi commedie (Die Austernprinzessin, La principessa delle ostriche; Die Puppe, La bambola di carne, entrambi del 1919), ma anche dai successivi drammi in costume con Pola Negri e Harry Liedtke: Carmen (Sangue gitano, 1918)  e Madame DuBarry (1919), dove recita di nuovo anche Jannings.

Vittorio Renzi  (25 febbraio 2017)

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Die Augen der Mumie Ma (Gli occhi della mummia)

[a.k.a The Eyes of The Mummy Ma]

Germania, 1918

regia: Ernst Lubitsch

sceneggiatura: Hans Kräly e Emile Rameau.

fotografia: Alfred Hansen

scenografia: Kurt Richter

produzione: Union-UFA

cast: Pola Negri (Ma), Harry Liedtke (Albert Wendland), Emil Jannings (Radu),
Max Laurence (Fuerst Hohenfels), Margarete Kupfer

lunghezza: 1.160 metri

durata:  55’

première: 3 ottobre 1918

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[1] Lotte H. Eisner, The Haunted Screen, University of California Press, 1952, p. 82 (traduzione mia).

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