Den sorte Drøm (Il sogno nero, 1911)

Urban Gad

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Film disponibile in streaming
sul sito Stumfilm.dk: LINK

Con Den sorte Drøm siamo dinnanzi a un vero e proprio lungometraggio: se è vero infatti che all’epoca venivano considerati come tali già i rarissimi film che superavano le due bobine, qui le bobine sono quattro e la durata sfiora i sessanta minuti. A produrre stavolta non è la Nordisk Film di Ole Olsen, ma la Fotorama, con sede a Aarhus, divenuta celebre per il suo film dell’anno precedente, Den hvide slavehandel (The White Slave Trade, 1910), diretto da August Blom, che ebbe una vasta risonanza e creò molto scandalo per l’esplicita tematica sessuale, oltre ad essere probabilmente il primo “lungometraggio” distribuito come tale (e non a puntate, come avveniva in simili casi ) della storia del cinema[1]. Quello danese si qualifica come il cinema che, ancora una volta, osa proporre pellicole di largo respiro e dai temi forti e spregiudicati, almeno per l’epoca. Inoltre, «i progressi tecnici di Nielsen e Gad sono così notevoli che riesce difficile credere che sia passato solo un anno da Afgrunden (L’abisso, 1910). Nonostante l’intreccio più convenzionale, Den sorte Drøm – dal punto di vista drammatico – è più coerente e teso del film precedente»[2].
Il regista e la sua prima attrice si sono appena sposati e di lì a poco, come faranno poi altre personalità del cinema danese, partiranno per la Germania dove proseguirà la loro carriera, insieme per diversi anni, poi separati. Valdemar Psilander invece rimase a Copenhagen, forte di una fama già consolidata, ma una malattia lo stroncò ancora giovane nel 1917.

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Esterno di un circo. Asta Nielsen, nei panni dell’artista circense Stella, appare per un momento dietro le quinte, in costume nero e montando un cavallo bianco, per tornare poi subito dentro. Due uomini la attendono in trepida attesa. Finalmente lei riappare e scende da cavallo, mentre un uomo in livrea  le porge i biglietti da visita dei due corteggiatori, uno maturo, l’altro più giovane e dai modi distinti: si tratta del gioielliere Hofjuveler A. Hirsch (Gunnar Helsengren) e del conte Johann Graf von Waldberg (Valdemar Psilander). Uno sguardo abbastanza lungo tra Stella e Johann ci fa già capire a chi dei due va la preferenza della donna. Nel suo camerino, Stella chiacchiera poi allegramente con la sua cameriera e le due donne se la ridono quando Stella manda via Hirsch, i cui modi sono oltremodo insistenti. Costui, fuori dal teatro, si sfoga con Johann per come è stato trattato e poi se ne va. Più tardi, Stella e Johann passeggiano lungo il fiume. La macchina da presa li segue effettuando una lenta e lunga panoramica, poi stacca su un piano ravvicinato dei due di spalle, con il fiume, i cigni e il bosco di sfondo. Un’altra breve panoramica segue Stella fino al portone del suo palazzo. La preferenza che Stella accorda al conte si spiega anche per i modi timidi e quasi rinunciatari del giovane che contrastano vivamente quelli triviali del gioielliere: dopo averla accompagnata, costui non tenta in nessun modo di salire in casa, sarà la donna, dopo essere già salita da sola e aver indugiato qualche istante, a scendere giù di nuovo per invitarlo, dopo averlo addirittura abbracciato. Una volta nell’appartamento, si costruisce fra i due una tensione sessuale in crescendo: da una parte le provocazioni di lei, seguite subito da ripensamenti, tanto ostentati quanto di circostanza; dall’altra parte, lo struggersi dell’uomo che, sempre con molto rispetto, si aggrappa al braccio di lei e le parla con amore.

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Lui la bacia, le accarezza il braccio nudo, lei ondeggia al suo contatto, tentando di mantenere il controllo, ma poi all’improvviso, come se niente fosse, gli prende una mano e se la mette sul seno. Una scena questa che, seppure in modo meno insistito (ma pur sempre audace), rimanda all’erotismo esplicito di Afgrunden: era anche per questo tipo di disinvoltura nel mostrare scene di sesso che il cinema della Danimarca stava divenendo famoso, o famigerato, a seconda dei Paesi che importavano o censuravano i suoi film. Quando Johann è ormai disperato per l’apparente ritrosia di Stella, il bacio sulla bocca che lei gli dà è delicato ma non breve quanto ci si aspetterebbe, dura qualche secondo, giusto il tempo necessario a mantenere alta la temperatura amorosa che si è creata. Lui si alza, la abbraccia, e con un gesto estremamente erotico, la Nielsen appoggia all’indietro il piede sul sofà e ci si siede sopra attirando a sé l’amato: alla fine di questa sequenza siamo già oltre il livello di convenzionalità a cui era abituato uno spettatore cinematografico. (Curiosamente, nella copia che ho visionato, in questo punto la scena non s’interrompe al suo culmine, ma prosegue, involontariamente, in backstage per un paio di secondi mostrandoci i due attori che improvvisamente escono dai loro ruoli: la Nielsen rimane lì seduta mentre Psilander si allontana velocemente fuori campo).

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Una sera, Stella dà una festa dopo uno spettacolo, intrattenendo dapprima gli invitati nel suo camerino, mentre lei si prepara. Si presenta anche, senza essere stato invitato, il gioielliere Hirsch, accolto da Stella con molta freddezza; più tardi escono tutti quanti per recarsi nell’appartamento di Stella. Un’elegante inquadratura mostra, attraverso la quinta di due tende, il tavolino dove siedono Stella, Hirsch e un’altra donna, mente Johann è lì in piedi vicino a loro a fare gli onori di casa e a coordinare i camerieri. Hirsch non si arrende, le sue avance si fanno sempre più pressanti e alla fine scoppia una rissa fra lui e Johann. Per appianare l’alterco, l’astuto gioielliere propone allora al giovane una partita a carte. Johann accetta e, per orgoglio, continua a giocare finché non perde tutto e s’indebita con Hirsch.

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In questo scontro fra due uomini di diversa estrazione sociale, un giovane nobile e un uomo d’affari, un borghese, si rivelano tutta la superficialità e i cliché di questi melodrammi, nei quali la differenza di classe è solo un pretesto, un motore dell’intreccio, e dove vige un rigido quanto convenzionale manicheismo per il quale il giovane (e bel) nobile ha tutta la nostra partecipazione emotiva, mentre il viscido (e ricco) borghese di mezza età suscita tutto il nostro disprezzo. I danesi all’epoca li chiamavano “melodrammi sociali”, ma la verità è che per assistere a un film autenticamente naturalistico e incentrato sulla denuncia sociale bisognerà attendere Ingeborg Holm (1913) dello svedese Victor Sjöström. L’aspetto che invece oggi appare più interessante in questi film è di carattere prettamente formale, in particolare riguardo all’illuminazione: «Per le scene di più intensa angoscia, i riflettori furono rimossi dai loro sostegni e posti a terra, in modo che – con l’avvicinarsi degli attori alla macchina da presa – le figure producessero lunghe e alte ombre sulle pareti»[3]. Anche se poi l’effetto si perdeva in gran parte per via della luce diffusa che proveniva dalle pareti di vetro del teatro di posa: i giochi di luce del cinema espressionista sono ancora di là da venire, ma trovano qui una loro prima e primitiva applicazione.

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Quando la disperazione di Johann spinge Stella a tentare di imbrogliare il gioielliere, la ragazza si presenta a lui con modi cordiali, sorridente. In questa sequenza vi è uno dei pochi piani ravvicinati di Asta Nielsen nel periodo danese, anche si tratta di un’inquadratura fortuita, funzionale all’intreccio: serve a evidenziare la collana di perle che Hirsch estrae da un astuccio per mostrarla alla donna, a mo’ di esca, e far sì che lo spettatore possa vedere bene il gioiello, prima che la donna lo trafughi (ma quello di Hirsch è un losco piano per incastrarla e poi ricattarla: egli le dà appositamente le spalle, per poi osservarla da uno specchio). Infatti, subito dopo si torna alla figura intera del campo medio, il piano abituale del cinema danese di quegli anni.

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L’arte di Asta Nielsen emerge in diverse scene del film: quando tira le carte in faccia a Hirsch per poi fissarlo con gelido disprezzo; quando toglie energicamente la pistola dalla tasca dell’amato, cercando di trattenerlo dai suoi foschi propositi e poi si allontana sgomenta. Quando, più tardi, in procinto di recarsi a cena da Hirsch per cedere alle sue avance (e ottenere in cambio l’estinzione dei debiti di Johann, evitandosi anche la denuncia per il furto della collana), respinge suo malgrado il suo vero amore, si tormenta con le dita di una mano un lembo della gonna per poi scoppiare a piangere: la lunga inquadratura li ritrae seduti sul sofà, l’uno accanto all’altra, rivolti verso la macchina da presa, lui sempre più scuro in volto, sospettoso, geloso; lei che lo guarda di soppiatto, disperata, ma senza potergli mostrare il suo vero stato d’animo, al fine di allontanarlo da sé. E’ una scena davvero straziante, in cui si può ammirare l’incredibile abilità della Nielsen nel rendere sullo schermo tutto un groviglio di sentimenti ed emozioni mediante gesti minimi, a volte quasi impercettibili e con la sola intensità dei suoi sguardi:

L’intensità è il medium della Nielsen, un’intensità che conferisce bruciante evidenza alle sue interpretazioni drammatiche e che lei ‘indossa’ con una così perfetta naturalezza da concedersi perfino un lampo di humour in una scena seria, e riuscire in tal modo a dare maggiore risalto ai suoi propositi.[4]

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Infine, a cena dal gioielliere, bellissima in quel vestito scuro e luccicante, stretto e scollato, la Nielsen alterna espressioni di condiscendenza, deboli sorrisi forzati, a un malessere che la permea interamente e che si intuisce dall’espressione opaca degli occhi e dalle posizioni rigide assunte dal suo corpo.
Lo stile di Valdemar Psilander, anche se più sommesso e apparentemente più monocorde, è invece perfettamente all’altezza delle doti della sua partner. Gli slanci emotivi si alternano ad espressioni più sfumate, mentre una sua caratteristica peculiare sono, nei momenti più drammatici, gli sguardi persi nel vuoto che spesso rivolge verso la macchina da presa: in tal modo riesce a rendere ancora più convincenti la rassegnazione e la disperazione del suo personaggio.

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Nella seconda parte del film, in cui il senso di frenesia e di tensione crescono costanti e implacabili, gli ambienti cambiano continuamente e le scene in interni si alternano a quelle in esterni (reali o ricostruiti in studio). In particolare, funge da catalizzatore di desolazione e angoscia, quella panchina nel parco invernale, circondata da arbusti spogli, in cui Johann si siede disperato, con la pistola in mano cercando il coraggio per togliersi la vita. Quello stesso parco in cui avviene poi successivamente l’incontro fra lui e Stella, che crede di aver trovato il modo di saldare i suoi debiti e salvarlo (derubando il gioielliere: piano che fallirà miseramente), mentre Hirsch da dietro un arbusto li sta spiando. La chiusura tragica in cui il giovane conte, dopo aver sorpreso Stella con Hirsch, spara in pieno petto alla sua amata, è certamente convenzionale e datata, ma l’ultima bellissima inquadratura mostra Stella, semisdraiata a terra, sorretta da Johann inginocchiato al suo fianco, la mano di lui di nuovo tenuta dalla mano di lei sul suo seno, dove però stavolta è penetrato il proiettile mortale.

Vittorio Renzi  (29 gennaio 2017)

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Den sorte drøm (Il sogno nero)

[The Black Dream]

Danimarca, 1911

regia e sceneggiatura: Urban Gad

fotografia: Adam Johansen

scenografia: Emil Poulsen

produzione: Fotorama

cast: Asta Nielsen (Stella), Valdemar Psilander (Grev Johan Waldberg), Gunnar Helsengren (gioielliere A. Hirsch), Ellen Holm,
Peter Fjelstrupp, Ellen Feldmann

lunghezza: 4 rulli, 1206 metri

durata:  56’

première: Berlino, 19 agosto 1911; Copenhagen, 4 settembre 1911


[1] Marguerite Engberg, Alfred Lind, in Paolo Cherchi Usai (a cura di), Schiave bianche allo specchio. Le origini del cinema in Scandinavia (1896-1918), Pordenone, Studio Tesi, 1986, p. 126. Anche se l’autrice, parlando di «prima pellicola a soggetto lunga più di un rullo» sembra dimenticare che in Francia, l’anno prima, era uscito il primo lungometraggio francese, L’Assommoir, di Albert Capellani (1909), in tre rulli.
[2] Martin Sopocy, Asta Nielsen e Valdemar Psilander. Tre film, in P. Cherchi Usai, op. cit., p. 279.
[3] Barry Salt, Schiave bianche e tende a strisce. La ricerca del “sensazionale”, in P. Cherchi Usai, op. cit, p. 65.
[4] Sopocy, op. cit., p. 279.

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