Alfred Hitchcock
SINOSSI: Una notte viene ritrovato l’ennesimo cadavere di una giovane donna bionda e l’omicidio porta, ancora una volta, la firma del “Vendicatore”. Secondo alcuni testimoni si tratta di un uomo alto, col cappello e una sciarpa. L’indomani, giunge in una pensione di Bloombsury un uomo che risponde alla descrizione e dice di chiamarsi Jonathan Drew. Daisy Bunting, la figlia dei due proprietari della pensione, fa l’indossatrice, è bionda ed è corteggiata da Joe Betts, un poliziotto di Scotland Yard. I Bunting temono che il nuovo pensionante, dall’aria sempre ombrosa e scostante, possa essere il misterioso assassino. Ma Daisy invece è attratta dal nuovo arrivato e i due escono insieme. Joe, che è geloso, si mette a indagare sul pensionante e scopre tutta una serie di indizi che lo portano a credere fermamente che si tratti proprio del “Vendicatore”. Ma la verità viene poi a galla: Jonathan è il fratello della prima ragazza uccisa ed è a sua volta sulle tracce dell’assassino. Nonostante questo, il giovane rischia il linciaggio da parte della folla, ma viene salvato proprio da Joe e scagionato dall’arresto del vero colpevole.
Terzo film di Alfred Hitchcock, The Lodger fu l’ultimo prodotto da Michael Balcon. Il successo fu enorme, al punto che una recensione sul “Bioscope” del 1926 lo considerò «forse la miglior produzione britannica di tutti i tempi», e fece sì che Hitchcock potesse firmare i suoi lavori successivi per un’altra compagnia, la British International Pictures, per una cifra ben superiore a quella fino a quel momento percepita. Tratto da un romanzo di Marie Belloc-Lowndes, è il primo film a cimentarsi, seppur in modo indiretto, con la celebre storia di Jack lo Squartatore. Hitchcock, che aveva assistito nel 1915 alla trasposizione teatrale del romanzo, dal titolo Who Is He?, qui collaborò anche alla sceneggiatura (non accreditato), finalmente alle prese con una storia che lo interessava e che gli diede modo di realizzare, come lui stesso sostenne in seguito, «il primo vero film di Hitchcock».
La prima sequenza di The Lodger è in effetti già puro Hitchcock: il primo piano di una giovane donna che urla terrorizzata guardando qualcuno davanti a lei, ma in fuori campo. Stacco su un’insegna lampeggiante («To-night Golden Curls», ovvero «Stasera riccioli d’oro»), quasi astratta nel suo essere decontestualizzata, ripresa solo in dettaglio, senza lo sfondo di un locale. Poi l’inquadratura del corpo della ragazza riverso in terra, immobile. A seguire, senza mai un piano di insieme, ma con un succedersi di primi piani che procedono per giustapposizione, una donna che si porta le mani al volto e urla, un poliziotto che scrive sul suo taccuino, un giornalista, anche lui mentre prende appunti, fino ad arrivare a un gruppetto di curiosi di profilo, che allungano il collo per vedere il cadavere.
Sin dalle prime sequenze è insomma più che evidente il desiderio del cineasta londinese di usare le immagini non solo in termini di concatenazione tra di esse in funzione narrativa, ma anche come elemento visivo (anche se mai autonomo o autoreferenziale), atto a creare uno shock visivo o comunque un’atmosfera, così come avveniva nel cinema tedesco degli anni Venti, dal quale rimase fortemente impressionato e influenzato. Dai film espressionisti, Hitchcock riprese l’illuminazione, – che a partire da quel momento fu considerata imprescindibile nel cinema inglese[1] – le angolazioni di ripresa e determinati effetti scenografici, per rielaborarli in uno stile proprio e già formato, come la ripresa in plongée della scala con la ringhiera, che tornerà poi, oltre trent’anni dopo e con modi e funzioni diverse, in Vertigo (La donna che visse due volte, 1958), o i quadri e i dipinti con immagini femminili. E ovviamente la passione per le donne bionde. Come racconta a Truffaut nel celebre libro-intervista: «Sono stato costantemente animato dalla volontà di presentare per la prima volta le mie idee in forma puramente visiva»[2].
E, subito dopo, nel raccontare l’incipit del film:
La prima inquadratura del film è il volto di una ragazza bionda che urla. Ecco come l’ho fotografata. Ho preso una lastra di vetro. Ho messo la testa della ragazza sul vetro, ho sparso i suoi capelli in modo che coprissero tutto il quadro, poi l’ho illuminato dal basso in modo da far risaltare i suoi capelli biondi. A questo punto c’è uno stacco e si passa a un’insegna luminosa che fa la pubblicità a una rivista musicale: ‘Questa sera, Riccioli d’Oro’. L’insegna si riflette nell’acqua. La ragazza di prima è morta annegata; viene tirata fuori e adagiata sulla strada.[3]
Poco dopo la sequenza descritta vediamo un capannello di gente presso un bar che chiacchiera animatamente dell’accaduto. Mentre uno di loro descrive l’aspetto dell’assassino (alto, con la faccia bendata da una sciarpa), una donna vede dietro di lei, riflesso in uno specchio sporco del bar, l’immagine distorta di un uomo che risponde perfettamente alla descrizione. La donna grida. L’uomo scoppia a ridere: stava solo facendo uno scherzo. Grazie a questo espediente, Hitchcock ha creato un’ennesima amplificazione di ansia e di suspense, ricorrendo inoltre a vari accorgimenti, come le pause e gli indugi della macchina da presa su volti, ombre, oggetti. Ed è proprio a partire da qui che Hitchcock mette a punto in maniera già matura e consapevole la pratica della suspense, così come è splendidamente definita da Truffaut in un articolo: «La dilatazione della durata, l’amplificazione di un’attesa, la valorizzazione di tutto ciò che ci fa battere un po’ più velocemente il cuore»[4].
The Lodger va a inaugurare il filone degli wrong men hitchcockiani, ovvero uomini innocenti che si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato, scambiati per colpevoli e perseguit(at)i come tali fino all’ultimo. Colpevole fino a prova contraria: è questo l’universo in cui si muove l’eroe hitchcockiano. Ma in questo caso lo spettatore, proprio come i personaggi, non sa per certo se egli sia colpevole o meno. Sin dalla prima apparizione di Ivor Novello davanti alla porta n. 13, quella della pensione in cui si ambienta il film, Hitchcock “gioca sporco” con il suo pubblico, facendo di tutto per renderlo sicuro della colpevolezza del giovane, che infatti corrisponde in tutto e per tutto alla descrizione: alto, sciarpa a coprire il volto e che lascia scoperti solo gli occhi e, come se non bastasse, uno sguardo cupo, quasi truce, che non desta certo simpatia o rassicurazione. Il regista, cioè, fa in modo che il pregiudizio comune, con cui sovente si creano malintesi, si espliciti attraverso l’uso di una regia focalizzata sull’uso dei punti di vista, di immagini derivanti dalla percezione soggettiva di uno o più personaggi. Il modo in cui Novello è mostrato è quello già corrotto e minato dal pregiudizio (dei personaggi, ma anche dell’occhio dello spettatore): noi vediamo quello che crediamo già di sapere e, di conseguenza, anche solo guardando, giudichiamo e modifichiamo gli eventi.
E’ dunque in questo sottile gioco di sguardi e malintesi che si destreggia buona parte dell’abilità narrativa e visiva del maestro inglese, il quale, persino nelle sequenze apparentemente di raccordo, crea delle scene rapide ma vivissime, destinate a fare scuola e a essere riproposte ad infinitum in miriadi di film successivi: le espressioni ambigue sui volti, l’insistenza su certi dettagli, su certi oggetti (come la borsa del pensionante e il suo contenuto, che rimane misterioso fino alla fine, oppure l’attizzatoio) che immediatamente assumono un’aria equivoca o minacciosa. O, semplicemente, la capacità di mostrare un ingranaggio come quello della creazione dell’articolo di un giornale, con tutti i passaggi per i vari macchinari, e giornalisti e stampatori che si muovono frenetici. Notevole l’uso reiterato delle scritte, quelle a stampa o le insegne al neon che si riverberano per tutta la prima parte del film, a sottolineare la velocità, già tutta moderna – e Hitchcock è, in primo luogo, cineasta della modernità – in cui le notizie corrono e si diffondono. E’ inoltre interessante anche rilevare, come fecero prontamente Rohmer e Chabrol nella loro capitale monografia su Hitchcock, la presenza di rimandi all’iconografia cristiana, che accompagna, a livello figurativo, il concetto di colpa di cui è investito il carattere principale: l’ombra dell’intelaiatura della finestra che si proietta come una croce nera sul suo viso, mentre è affacciato alla finestra. O la sua “crocifissione” alla ringhiera, alla quale resta appeso per le manette, nella scena in cui sta per essere linciato dalla folla inferocita[5].
Alcuni trucchi usati qui sono mirati a sostituire e, in un certo modo, a restituire il sonoro alla scena, come quando il pensionante cammina avanti e indietro nella sua stanza e, al piano di sotto, Joe, Daisy e i coniugi Bunting alzano la testa, evidentemente disturbati da quel nervoso calpestio. Una ripresa dal basso, in soggettiva, coerentemente ai loro sguardi sollevati, ci mostra attraverso il soffitto (al posto del quale fu usata una lastra di vetro) le scarpe dell’uomo che camminano avanti e indietro. Un’inquadratura sperimentale “a raggi X” che l’Hitchcock di molti anni dopo, in pieno cinema sonoro, come confidò sempre a Truffaut, si sarebbe rifiutato di replicare, dato che non ce ne sarebbe più stato il motivo. Questo perché, come dicevo prima, le sue sperimentazioni e arditezze registiche non erano mai fini a se stesse, ma sempre funzionali a produrre un determinato effetto.
Per quanto riguarda invece l’aspetto erotico, proposto, come spesso avverrà in seguito, sotto forma di triangolo amoroso, è da notare come l’irresistibile attrazione che si viene a creare fra Daisy e Jonathan sia posta in risalto e rimarcata da alcune scelte di regia particolarmente “forti”, che puntano a creare una differenza netta rispetto alle scene assai più tiepide (e in uno stile più da commedia) che vedono insieme la ragazza e il poliziotto Joe. Ad esempio i primi o addirittura primissimi piani in avvicinamento, con sguardo in macchina, che sembrano coinvolgere lo spettatore nel loro amplesso, la durata e l’intensità dei loro momenti intimi, e quel bacio in primo piano, che azzera ogni sfondo (e anche ogni possibile fuori campo) e che anticipa il lungo bacio fra Cary Grant e Ingrid Bergman in Notorious (Notorious – L’amante perduta, 1946).
Hitchcock, secondo una nota consuetudine messa in atto durante tutta la sua carriera, si concede qui non una, bensì in due apparizioni-cameo: nella prima è un uomo seduto nella redazione di un giornale, poco dopo l’inizio del film; nella seconda, verso la fine, è uno dei curiosi che assistono al quasi linciaggio di Jonathan.
Il gallese Ivor Novello (nome d’arte di David Ivor Davies, 1893-1951), attore, cantante e compositore, era all’epoca già molto famoso e uno dei volti più richiesti del cinema inglese. L’anno successivo fu nuovamente scritturato come protagonista per il successivo film di Hitchcock, Downhill (Il declino, 1927).
Di The Lodger furono negli anni realizzati numerosi remake (l’ultimo è del 2009), il più celebre dei quali – e meglio riuscito – è quello omonimo del 1944 per la regia di John Brahm.
Il film è stato restaurato nel 2012 da BFI National Archive, in associazione con ITV Studios Global Entertainment, Network Releasing e Park Circus Films. Essendo andato perduto il negativo originale, il lavoro è stato fatto a partire dalle copie nitrato conservate presso il BFI National Archive.
Vittorio Renzi (8 ottobre 2016)
The Lodger: A Story of the London Fog
(Il pensionante)
Gb, 1926
regia: Alfred Hitchcock
soggetto: romanzo omonimo di Marie Belloc Lowndes
e adattamento teatrale Who is He? di Horace Annesley Vachell
sceneggiatura: Eliot Stannard [e Alfred Hitchcock]
fotografia: Baron Ventimiglia [e Hal Young]
montaggio: Ivor Montagu
scenografia: C. Wilfred Arnold, Bertram Evans
produzione: Michael Balcon, Carlyle Blackwell, per Gainsborough Pictures
cast: Ivor Novello (Jonathan Drew), June [Tripp] (Daisy Bunting), Malcolm Keen (Joe Betts), Marie Ault (sig.ra Bunting), Arthur Chesney (sig. Bunting), Maudie Dunham (prima vittima), Eve Gray (ballerina vittima), Alfred Hitchcock, Alma Reville
lunghezza: 8 rulli, 7.685 piedi
durata: 74’/90’ (TCM)/92’
data di uscita: settembre 1926
[1] «(…) e da questo momento in poi, l’importanza chiave dell’illuminazione fu incontrovertibile», da Rachel Low, The History of the British Film 1918-1929, London, George Allen & Unwin Ltd, 1971, p. 252 (traduzione mia). Nello stesso paragrafo, Low cita anche il contributo fondamentale del tecnico delle luci tedesco Karl Fischer nei primi due film di Asquith, Shooting Stars (1927) e Underground (1928).
[2] François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Parma, Pratiche 1977, p. 39
[3] Ibidem.
[4] François Truffaut, Alfred Hitchcock nel 1980, in Il piacere degli occhi, Venezia, Marsilio, 1988, p. 62.
[5] Eric Rohmer, Claude Chabrol, Hitchcock, Venezia, Marsilio, 1996, p. 30.