In the Land of the Head Hunters (1914)

Edward S. Curtis

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SINOSSI: Il giovane Motana viene mandato in missione dal padre Kenada, capo villaggio di Watswulis, per mezzo della quale egli diventerà un uomo a tutti gli effetti. Egli deve vagare per isole e foreste, ingraziarsi gli spiriti tramite danze tribali e lottare contro una balena e un leone marino. Oltre a questo, deve scacciare i pensieri verso le donne. Ma una notte Motana ha la visione del volto di Naida, la bella figlia di Waket, capo villaggio Paas, una tribù di cacciatori di teste. Naida è promessa proprio al vecchio stregone di Paas, ritenuto da molti immortale. La mattina dopo Motana la incontra e le dà un pegno d’amore. Poi, per aver trasgredito alla regola circa le donne, si reca nell’Isola dei Morti e infine caccia e uccide una balena e un leone marino. Dopo aver completato la sua ricerca, Motana, sopravvissuto al desiderio di vendetta dello stregone, torna al suo villaggio. Lì, la sua tribù, sotto il comando di Kenada, decide di sbarazzarsi una volta per tutte del malvagio stregone. Lo uccidono in battaglia e prendono la sua testa per dimostrare ai più superstiziosi che dopotutto egli non era immortale. I vincitori portano con loro Naida e, al ritorno, i due giovani si sposano con una grande cerimonia. Ma il fratello dello stregone, il guerriero Yaklus, per vendicarsi saccheggia il villaggio di Motana, uccidendo suo padre e rapisce Naida per farne la sua schiava. Il servo di Naida, sfuggito alla prigionia, conduce Motana e i suoi guerrieri al salvataggio di Naida. Ne consegue un inseguimento sulle canoe al termine del quale anche Yaklus incontra il suo destino in mare.

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Questo film vanta almeno due primati: si tratta del primo lungometraggio il cui cast è composto interamente da nativi nordamericani. Bisognerà aspettare otto anni prima che ve ne sia un secondo, ben più famoso di questo, ovvero Nanook of the North (Nanuk l’eschimese, 1922), di Robert Flaherty, che dall’opera di Curtis fu direttamente influenzato (fu lo stesso Curtis a mostrargli il suo film). Ed è inoltre il primo film realizzato in Canada che ci sia pervenuto. Fu girato, per la precisione, presso Tsoxis (Fort Rupert), vicino all’attuale Port Hardy, nell’isola di Vancouver, facente parte della Columbia Britannica. Tuttavia, la frase di lancio del film recita: «A drama of primitive life on the Shores of the North Pacific» («Un dramma della vita primitiva sulle coste del Nord Pacifico»). E se in nessuna parte del film o nei materiali pubblicitari i ​​Kwakwaka’wakw vengono menzionati esplicitamente né è specificata l’ambientazione canadese – si parla di una generica tribù della costa del Pacifico – nel film figurano nativi americani appartenenti alla comunità Kwakiutl (termine con cui spesso erroneamente ci si riferisce all’intera etnia Kwakwaka’wakw), ‘Nak’waxda’xxw e ad altre di quell’area, tutte facenti parte del gruppo etnico/linguistico Kwak’wala, il cui dialetto – appartenente al gruppo linguistico Wakashan –  oggi è parlato soltanto da metà della popolazione.

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Nel primo decennio del Novecento, questa etnia fu portata alla notorietà dagli scritti dell’etnologo tedesco Franz Boas, che in precedenza aveva studiato gli eschimesi. Prima del “contatto” (quello con i bianchi venuti dall’Europa), questa popolazione era dedita prevalentemente alla pesca e, in minor grado, alla caccia, ed era organizzata su tre diversi livelli sociali: nobili, gente comune, schiavi. D’inverno si praticava una festa rituale denominata potlatch, durante la quale, fra le altre cose, ciascuna tribù elargiva doni alle altre, ostentando la propria generosità in termini competitivi. La ricchezza, presso queste comunità, non era infatti calcolata in base agli averi, bensì agli averi che si potevano o volevano donare. Proibita a partire dal 1885 sia dal Canada che dagli Stati Uniti, al fine di favorire l’integrazione, questa festa fu praticata ancora clandestinamente e, a seguito della depenalizzazione, la tradizione è giunta fino ai nostri giorni. Il nome della nazione Kwakiutl, tradotto letteralmente, suona “Fumo-del mondo” (Smoke-of-the-World).

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La prima proiezione avvenne a New York City e poi a Seattle, nel 1914, con la partitura originale del compositore John J. Braham che si ispirava alla musica Kwakwaka’wakw, registrata in loco tramite un cilindro fonografico. Questa colonna sonora è considerata la più antica dell’intero cinema muto che ci sia pervenuta. Ma, nonostante il grande battage pubblicitario e le alte aspettative, il film si rivelò un fiasco. Nel 1924, Curtis vendette il negativo e la stampa originali al Museo americano di Storia naturale, per una somma di molto inferiore a quanto era costato. Il film fu dimenticato per decenni, fino a quando una copia mutila non fu ritrovata in un cassonetto da un collezionista nel 1947 e successivamente rieditata nel 1973 con il titolo In the Land of the War Canoes e presentata come semplice documentario. Il restauro del film fu poi realizzato nel 2008, con la collaborazione del Centro Culturale U’mista, a partire da quella stampa incompleta più alcuni spezzoni molto danneggiati rinvenuti nell’archivio dell’UCLA, con le tinte e le musiche originali. La Milestone Films ha pubblicato il DVD e il Blu ray contenenti anche la versione più breve del ’73 con il titolo alternativo. Le parti mancanti sono state sostituite da immagini fisse da fotogrammi o foto di scena.

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Il film si divide in due parti. La prima parte si intitola The Vigil of Motana (La veglia di Motana). Dopo la prima immagine sul mare, che è fissa, partono le didascalie con i nomi dei singoli personaggi principali, intervallate da brevi piani fissi, a mo’ di ritratto. In realtà ce ne sono solo un paio, gli altri, mancanti, sono sostituiti da fotogrammi fissi. Così come manca tutta la prima parte del dialogo di Motana col padre e la sua partenza per mare. La prima immagine in movimento che vediamo (esclusi i due menzionati ritratti iniziali) è quella di un isolotto roccioso dove si dimena una colonia di leoni marini alla quale, più tardi, Motana darà l’assalto. Il giovane si reca su un’isola e accende una pira per invocare gli spiriti e danza attorno al fuoco, dopodiché si distende per riposare. Gli appare il volto di una ragazza in sovrimpressione sul fumo della pira. Si tratta appunto di Naida. La mattina dopo Naida arriva remando su una barca e Motana le consegna un pegno d’amore. La scena è molto veloce e quasi meccanica, senza primi piani e i due attori improvvisati tutto sembrano tranne che due amanti clandestini.

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Ma questa è, del resto, un’inevitabile caratteristica di tutto il film: in diverse occasioni gli individui che compaiono davanti alla cinepresa di rivelano goffi e quasi imbarazzati, evidentemente estranei ad una concezione di rappresentazione realistica. Il loro modo di rappresentazione, lo vediamo nella parte più interessante del film, che è quella delle danze tribali, dei riti e dei festeggiamenti, è un modo simbolico che non ha a che fare con l’arte, bensì col rito, con le credenze, in cui quella naturalezza o quella spontaneità che l’attore professionista già iniziava ricercare[1] (e che Pasolini poi detesterà) non ha statuto, poiché tale modo si basa in effetti sul suo esatto rovescio, l’invocazione/evocazione di esseri soprannaturali, mitici, totemici, come gli animali di cui alcuni membri della comunità indossano le variopinte maschere (l’orso, il lupo, la capra delle nevi, la vespa, il cane). Una rappresentazione che non si basa dunque sulla recitazione, sull’interpretazione, ma sulla danza, il ritmo e la gestualità. E tuttavia, il fascino di un film simile – che non si pone come documentario, ma come film di finzione – sta proprio qui, nella irrappresentabilità di una cultura (ancora) troppo vergine, troppo altra, e dunque refrattaria all’essere assimilata e “riprodotta” tramite gli schemi e i mezzi (e quindi anche il mezzo-cinema).

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Gli sguardi in macchina, un po’ imbarazzati e goffi per i motivi di cui parlavamo, si ritrovano in tutto il corso del film, come se i “non attori” si fermassero improvvisamente in attesa di ricevere istruzioni su cosa fare. La loro recitazione, infatti (in modo non dissimile da quella di qualsiasi altro attore nei primi anni Dieci, a dire il vero), è sempre improntata al fare qualcosa, più che all’esprimere qualcosa. E dunque, giustamente, non sapendo cosa fare, ci si ferma e si attende una direttiva. Nella scena che segue la cattura della balena, in cui a un certo punto vediamo Motana infilarsi dentro la bocca del cetaceo e sorridere verso la macchina da presa. Oppure, all’inizio della lunga sequenza del giovane servo di Naida che fugge dal villaggio Paas, il ragazzo spunta da dietro una tenda, si guarda intorno, poi guarda in macchina. Infine si allontana verso il bosco e inizia a fuggire, ma poi si intravede fra gli alberi che ferma e si volta in attesa, credendo forse di non essere più inquadrato dalla cinepresa. Poi, dopo aver evidentemente ricevuto un’indicazione dal regista, riprende ad allontanarsi.

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Nella seconda parte sono mancanti la scena in cui lo stregone tenta di vendicarsi su Motana e quella della battaglia in cui costui perisce. Ma resta quello che è forse il momento più suggestivo di tutto il film: il corteo trionfale delle canoe, nelle quali si ergono uomini vestiti con i costumi degli animali totemici che danzano sulla prua. Successivamente troviamo altre sequenze di questo tipo, ma la bellezza di questa in particolare sta nella ripresa effettuata in movimento dalla cinepresa, situata evidentemente su una canoa che precede le altre, che esalta il movimento ritmato degli uomini in costume danzanti.

Un altro dei rari movimenti di macchina  si ha durante la fuga di una famiglia del villaggio Watsulis, inseguita dai guerrieri della tribù rivale. Giunti con una canoa su una spiaggia rocciosa, i fuggitivi si arrampicano lungo una scogliera in cerca di una salvezza che non troveranno e la macchina da presa li segue con un breve ma drammatico movimento dal basso verso l’alto.

Sfruttando gli scenari reali e la luminosità naturale degli esterni, come ad esempio lo scintillio del sole sulle onde del mare, Curtis costruisce un film di finzione la cui trama, improntata su uno scheletro avventuroso/melodrammatico, è supportata dal fascino di immagini da documentario etnologico e naturalistico in chiave lirica, che costituiscono senz’altro l’attrattiva maggiore del film.

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Prima ancora che regista, Edward S. Curtis fu fotografo ed etnologo, specializzato in ritratti e studi sul popolo dei nativi americani. I suoi primi contatti con i Kwakwaka’wakw si devono, oltre alla fama raggiunta dagli studi di Boas, ad un certo George Hunt, figlio del proprietario di un emporio locale. Hunt fece da guida, interprete e mediatore fra Curtis e la cultura dei nativi americani e si rivelò indispensabile per la realizzazione di In the Land of the Head Hunters. Il figlio di Hunt, Stanley, vi interpreta il ruolo del protagonista, Motana. La carriera cinematografica di Curtis fu assai breve e si concluse dopo altri due cortometraggi diretti un paio d’anni dopo, uno dei quali sugli indiani dell’Alaska, dove si era già recato precedentemente, in una spedizione del 1899. Nel 1923 Curtis farà da aiuto regista a Cecil B. De Mille nel suo The Ten Commandments (I dieci comandamenti), ma solo per guadagnare i soldi necessari ad aprire uno studio fotografico a Los Angeles.

Una scena di questo film, e precisamente quella riprodotta nella prima immagine, si vede brevemente nel bel thriller di Bob Rafelson, Black Widow (La vedova nera, 1986).

Vittorio Renzi (3 aprile 2016)

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In the Land of the Head Hunters

[t.l.: Nella terra dei cacciatori di teste / a.k.a. In the Land of the War Canoes]

Usa, 1914

regia e sceneggiatura: Edward S. Curtis

fotografia: Edmund August Schwinke

musica: John J. Braham

produzione: Edward S. Curtis, per Seattle Film Company

cast: Stanley Hunt (Motana), Paddy ‘Malid (Kenada), Maggie Frank (Naida), Balutsa (Waket/Yaklus), Kwagwanu (sciamano), Mrs. George Walkus (Naida/sciamana), Sarah Constance Smith Hunt (Naida/danzatrice Na’nalalal), Francine Hunt, Bob Wilson

lunghezza: 6 rulli (4 pervenuti)

durata:  66′

première:  7 dicembre 1914

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[1] Penso ad esempio ad attrici coeve come Asta Nielsen in Danimarca, Lillian Gish, in America o la nostra Francesca Bertini.

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