La merveilleuse Vie de Jeanne d’Arc (La condottiera, 1929)

Marco de Gastyne

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SINOSSI: La giovane Jeanne vive nel villaggio di Domrémy, nella Lorena. Un giorno vede arrivare dei soldati francesi che raccontano storie di guerra contro gli invasori inglesi. Poco dopo Jeanne viene raggiunta da una voce divina che le ordina di recarsi dal Delfino e futuro re di Francia, Carlo VII, per farsi assegnare un esercito e riunificare la nazione. Jeanne lascia la sua casa e si mette in viaggio. La sua fede e la sua ferma convinzione impressionano il Delfino che le concede quanto richiesto. Alla testa di un’armata, Jeanne, dopo una cruenta battaglia, riconquista Orléans. Si susseguono altre imprese militari fin quando la giovane condottiera non viene fatta prigioniera dai Borgognoni, alleati degli inglesi, che la vendono al nemico. Dopo un processo per stregoneria, Jeanne, che dapprima abiura, poi ritratta, viene condannata al rogo e arsa viva a Rouen, il 30 maggio 1431.

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Sono molte le trasposizioni cinematografiche della vicenda della Pucelle d’Orléans. Nel solo cinema muto se ne contano almeno una decina e l’ultima, alle soglie dell’epoca del sonoro, è proprio quella qui presa in esame. Il film di Marco de Gastyne appartiene a alla categoria dei film quasi perduti, dimenticati persino dagli storici del cinema. Il motivo, in questo caso, è lampante e ha due nomi e un volto: Carl Theodor Dreyer e Renée Falconetti. Nel 1928, con l’approssimarsi del cinquecentenario della morte di Jeanne d’Arc, due diverse case di produzione francesi, la Société générale de Films e la Pathé-Natan, misero in cantiere la lavorazione di un film sulla vita della santa (fu canonizzata nel 1920) e patrona di Francia. La Passion de Jeanne d’Arc (La passione di Giovanna d’Arco, 1928), del regista danese, anticipò di un anno il film Pathé e, nonostante Dreyer avesse tradito le aspettative, tagliando tutto il materiale propriamente storico per concentrarsi sul volto di Jeanne/Falconetti, il film si rivelò talmente sconvolgente e innovativo da oscurare qualsiasi altro progetto sul tema. Figuriamoci quello di un regista come Marco de Gastyne, pittore prima, scenografo poi, e per finire a apprezzato regista, soprattutto negli anni Venti e Trenta. Oggi, illustre sconosciuto.

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Il film fu sceneggiato da Jean-José Frappa, letterato e critico del cinema, che fu avverso al film concorrente di Dreyer prima ancora che approdasse in sala. Gli rimproverava di essersi discostato dall’immagine ideale di Janne d’Arc per restituirne una «ottusa e piagnucolosa», in nulla simile al coraggio e al «divino candore» dell’eroina francese, per concludere che, del resto, uno straniero non poteva certo comprenderla appieno[1].

Dimentichiamoci ora per un attimo delle discutibilissime accuse di Frappa e del capolavoro di Dreyer. Se ci riusciamo, non possiamo non sorprenderci davanti a questo film. E non possiamo non renderci conto di quanto meritasse un posto molto più in vista, rispetto al ripostiglio polveroso in cui è stato sfortunatamente relegato nella storia del cinema. Il volto di Jeanne, qui, è quello di Simone Genevois, che all’epoca delle riprese aveva sedici anni (contro i 35-36 della Falconetti). Ovvero la stessa età che aveva la vera Jeanne al momento della sua partenza per Vaucouleurs. Selezionata in una rosa di oltre mille candidate, quest’attrice, anche lei oggi pressoché dimenticata, aveva visto il suo primo set cinematografico all’età di un anno, e da lì in poi aveva lavorato in diversi film muti. Due anni prima, Abel Gance l’aveva voluta nel ruolo di Pauline Bonaparte adolescente nel suo Napoléon (Napoleone, 1927). Successivamente, la Genevois recitò in un pugno di film sonori e poi abbandonò il cinema, poco più che trentenne.

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Sopravvissuto in frammenti, La merveilleuse Vie de Jeanne d’Arc è stato ricostruito nel 1983 a partire da una copia in 17,5 mm. Originariamente la durata avrebbe dovuto avvicinarsi alle tre ore, mentre ne rimangono poco più di due. C’è da dire però che la ricostruzione è talmente fluida che, se non si è a conoscenza delle parti mancanti, non ci si fa caso. Il film ripercorre fedelmente le tappe principali della vita della Pulzella d’Orléans (come farà, diversi decenni dopo, l’opera in due parti di Jacques Rivette), in particolar modo la lunga sezione centrale dedicata all’impresa militare più famosa di Jeanne, ovvero la liberazione di Orléans. Il film si apre con uno scritto di Michelet: “Ricordiamoci sempre che la nostra patria è nata dal cuore di una donna, dalla sua tenerezza e dalle sue lacrime, dal sangue ch’ella ha versato per noi”. Scritto che chiarisce da subito la natura agiografica e patriottica del film, che rimanda in pieno l’immagine tradizionale della santa patrona e martire.

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Eppure, sin dalle prime immagini, ci rendiamo conto che c’è qualcosa di più. L’ambientazione agreste del villaggio natale di Jeanne, Domrémy (in seguito ribattezzato Domrémy-la-Pucelle, in suo onore), le riprese in esterni con i buoi, le pecore e gli alberi a fusto alto mossi dolcemente dal vento ci introducono subito in un climax di serenità ed innocenza. Jeanne vive lì, felice, come fuori dal mondo, nonostante il suo paese sia in guerra da anni. Quando le campane suonano, si ferma nel suo orto per pregare, accarezza un gatto, sorride a tutti… Ma con l’arrivo dei soldati in paese, alcuni di loro feriti, nell’ascoltare le loro storie di guerra e disfatta, gli occhi di Jeanne mutano d’espressione: in un istante vediamo scomparire quella serenità e quell’innocenza, sostituite da una profonda tristezza e una pena infinite per la sua nazione. Poco dopo assistiamo alla sua “chiamata” da parte della voce celeste e vediamo in sovrimpressione una sorta di danza di angeli intorno al campanile della chiesa. Ma pur seguendo pedissequamente la narrazione tradizionale della storia di Jeanne, il regista ne sposa il punto di vista a un livello più profondo, ricercando cioè quella verità che può derivare solo da un’aderenza totale al proprio personaggio. Ecco perché persino le voci, le apparizioni e gli sguardi estatici di Jeanne non ci appaiono stucchevoli, bensì commoventi nella loro intensità. Gran parte del merito va, anche in questo caso, alla performance di Simone Genevois, in tutte le sue diverse declinazioni nel corso del film. Un’attrice straordinaria, i cui occhi emanano tutta l’autorevolezza e il magnetismo (la seduzione) necessari per ricoprire un ruolo tanto impegnativo.

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Il film è dispiegato in tre principali “movimenti”: l’inizio nel villaggio, con l’arrivo dei soldati e la “chiamata” di Jeanne, fino al viaggio per incontrare il Delfino. Poi la battaglia di Orléans, che occupa il corpo centrale del film. E infine la prigionia e il processo. La seconda parte è girata completamente in esterni, e mette in campo un gran dispiegamento di comparse, scenografie grandiose e un apparato tecnico/stilistico che rimanda visibilmente, pur senza equipararlo nei risultati, al Napoléon di Gance. Le scene di battaglia furono girate adoperando un nuovo obiettivo, l’Hypergonar, che permetteva immagini panoramiche. Fu brevettato da Henri Chrétien, la cui invenzione fu ispirata proprio dai famosi trittici del Napoléon.  Dopo de Gastyne lo usarono in pochi e alla fine, nel 1953, Chrétien vendette il brevetto alla Twentieth Century-Fox che lo rimise in commercio con il nome CinemaScope[2].

La battaglia di Orléans è grande cinema nazional popolare, uno spettacolo di masse in movimento, estremamente dinamico e articolato, all’interno del quale spicca sempre in primo piano il volto di Jeanne: è sempre a lei che il regista torna, facendone il fulcro e significato ultimo delle vicende. Di Gance mancano le sperimentazioni più estreme, ma per il resto i movimenti di macchina, le angolazioni di ripresa, il montaggio rapido e le sovrimpressioni dei diversi elementi (la battaglia, lo stendardo, il volto di Jeanne trasfigurato dall’incitamento alla vittoria) costruiscono un ritmo entusiasmante. E se a questo aggiungiamo il fumo sul campo di battaglia, il sangue che sgorga a profusione dalle ferite e i feriti agonizzanti in primo piano, ci rendiamo conto che è già un cinema modernissimo, perfettamente calibrato e controllato per ottenere il massimo coinvolgimento del suo pubblico. Hollywoodiano, potremmo dire, ma con un’anima, specie se paragonato al kolossal Joan the Woman (Giovanna d’Arco, 1916) di Cecil B. De Mille che, dopo il film di Dreyer, è senz’altro il film muto più conosciuto su Jeanne d’Arc.

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Il culmine della seconda parte è la scena in cui Jeanne, ferita da una freccia e in ginocchio in mezzo ai cadaveri dei soldati, assiste al massacro dell’ultima guarnigione di inglesi sulle Tourelles. Ripresa con un primo piano frontale, vediamo il suo volto mutare espressione, passando dalla gioia e dall’esaltazione della vittoria, passare allo sgomento e all’orrore per il numero dei morti. Alle sue spalle, si sussegue un movimento quasi indistinto e incessante di armi e soldati. Dunque la vita (dietro di lei), la morte (sotto di lei), e quella tremenda incertezza negli occhi, che cova sempre nel profondo della natura umana, anche nella più radicata delle fedi.

Alla prigionia e al processo è dedicato l’ultimo terzo del film, girato tutto in luoghi chiusi, alternando i primi piani del volto di Jeanne e dei suoi carnefici, con scene oggi ancora molto forti, come il tentativo di stupro nella cella, ad opera di due guardie e il rogo che conclude la tragica vicenda della Pucelle d’Orléans. Fino alla fine, il film di de Gastyne e Frappa insegue un registro naturalistico, senza eccessive sbavature, eppure commovente e intenso fino all’ultima inquadratura.

Vittorio Renzi(23 novembre 2015)

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La merveilleuse Vie de Jeanne d’Arc (La condottiera)

[Saint Joan the Maid]

Francia, 1929

regia: Marco de Gastyne

sceneggiatura: Jean-José Frappa

fotografia: Gaston Brun

scenografia: Henri Bonnefoy

produzione: Emile Natan, per Pathé-Natan

cast: Simone Genevois (Jeanne d’Arc), Philippe Hériat (Gilles de Rays), Fernand Mailly (La Hire), Jean Debucourt (Charles VII), Daniel Mendaille (Lord Talbot), Gaston Modot (Lord Glasdall), Georges Paulais (Nicolas Loyseleur), Jean Toulout, François Viguier, Choura Milena, Louis Allibert, Pierre Douvan, Bernard Taft, Bernard Taft

lunghezza: 4800 metri

durata:  125′

première: 18 aprile 1929

data di uscita: 19 aprile 1929

La merveilleuse vie de Jeanne d_Arc poster


[1] Jean-José Frappa in “Chanteclerc”, 3 nov. 1928, citato in “L’Avant-Scène Cinéma” 367/368, gen-feb. 1988, p. 163.
[2] Kevin Brownlow, Come Gance ha realizzato Napoléon, Milano, Il Castoro, 2002 [1983], p. 163.

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