Paul Leni
SINOSSI: Sono passati vent’anni da quando il milionario Cyrus West è passato a miglior vita e Roger Crosby, il suo avvocato, riunisce i suoi sei parenti diretti nella casa di New Orleans per leggere loro le ultime volontà del defunto. Tra il disappunto dei presenti, solo una di loro, Annabelle, riceverà l’eredità. C’è però anche un secondo testamento che subentrerebbe nel caso in cui venisse dimostrato che Annabelle è pazza. La scomparsa improvvisa dell’avvocato e la notizia che un pericoloso folle omicida è appena scappato da un manicomio, fa precipitare tutti nel panico.
Un gruppo di persone radunate in un’antica dimora che si rivela poi stregata o infestata. Un canovaccio ben noto già all’epoca e che ritroveremo innumerevoli volte nella storia del cinema gotico e dell’orrore. In più qui è presente anche un registro grottesco-comico che si rifà alle horror comedies messe in scena a Broadway – il soggetto del film in questione è per l’appunto un lavoro teatrale di John Willard, The Bat, già adattato per il cinema nel 1912 – e che farà sentire la sua eco anche nei decenni successivi, penso ai film di William Castle, ad esempio, a The Raven (I maghi del terrore, 1963) di Corman, fino al cinema di Tim Burton. Scrive Kevin Brownlow:
La Universal aveva già realizzato in precedenza film ambientati in una “vecchia casa buia”, ma Paul Leni qui rivoluzionò il tutto, stabilendo un parametro per i classici horror della Paramount; il regista James Whale ammise infatti di dovergli molto. C’è di più. The Cat and the Canary è uno dei primi film in cui trovare, magari di sfuggita, alcuni tra gli elementi rivoluzionari che Orson Welles e Gregg Toland avrebbero introdotto in Citizen Kane: audaci inquadrature dal basso, profondità nella messa a fuoco, macchina da presa in soggettiva. Gilbert Warrenton, il bravissimo cameraman che aveva lavorato a The Man Who Laughs e a Lonesome, era noto come il Karl Freund americano. Tra i suoi assistenti c’era il giovane Stanley Cortez, che avrebbe curato la fotografia di The Magnificent Ambersons di Welles.[1]
Una messa in scena impeccabile, che sfrutta la profondità di campo attraverso un’accorta disposizione di corpi e volti su più livelli all’interno di un unico piano. E poi una macchina da presa estremamente mobile, in questo come in altri suoi film, che ha permesso a Paul Leni di distaccarsi definitivamente dalla matrice teatrale della rappresentazione, per contribuire a fondare la tecnica e l’estetica del cinema dell’orrore e del cinema tout court. Follia e allucinazioni: fin dalla prima scena vediamo il vecchio milionario Cyrus West attorniato da gatti e bottiglie giganti. Per simulare la soggettiva del fantasma che si aggira per i corridoi tetri e deserti, Leni fa eseguire alla macchina da presa dei movimenti fluidi stupefacenti che sembrano davvero anticipare la Steadycam di Carpenter o Kubrick in Halloween (Halloween, la notte delle streghe, 1978) o The Shining (Shining, 1980). Più avanti, una seconda soggettiva, stavolta secondo il punto di vista di un ladro: lo capiamo dal fatto che il buio della magione è squarciato dai lampi di una torcia in movimento, fino al comparire una mano guantata che si avventa sulla cassaforte. Infine, si arriva alla soggettiva del ritratto del defunto, dagli occhi spalancati e deliranti, che – cadendo dalla parete – “osserva” gli ospiti sgomenti.
Curiosamente, in una scena ancora successiva, la tecnica della sovrimpressione viene usata al posto del montaggio alternato, per mostrare una mano che bussa alla porta del castello e la reazione in contemporanea dei due personaggi in scena, all’interno. Ma il migliore impiego di questa tecnica è quello dei meccanismi dell’orologio a pendolo, che riprendono a muoversi dopo vent’anni e che prendono a scorrere sui volti turbati e tesi degli ospiti della casa maledetta con l’effetto di un conto alla rovescia.
E poi ancora giochi d’ombra sui muri, didascalie animate con scritte tremolanti: tutti i trucchi fino ad allora noti vengono impiegati per creare – sempre con umorismo e ironia – un’atmosfera di tensione e paura. Tra gli altri archetipi che incontriamo nel corso di questo divertentissimo film, il personaggio della governante, dall’aria funerea/funesta, per non dire fantasmatica, dal volto sempre in penombra; mostruose mani pelose che compaiono da porte o pareti per ghermire le ignare vittime; o l’inattesa apparizione di un cadavere da dietro un pannello che cade addosso al malcapitato scopritore.
Il successo di The Cat and the Canary, uno dei primi horror della Universal, che segna anche l’incontro tra il cinema espressionista tedesco e la produzione in serie e codificata hollywoodiana, lo rese una pietra miliare del genere, soprattutto grazie all’acume del produttore Carl Laemmle e del brillante giovane regista tedesco Paul Leni. Successivamente ne furono realizzati due remake: uno diretto da Elliott Nugent, con Bob Hope nel 1939 (in Italia, Il fantasma di mezzanotte) e un altro nel 1978, per la regia di Radley Metzger.
Leni in America diresse tre film: The Chinese Parrot (Il pappagallo cinese, 1927), The Man Who Laughs (L’uomo che ride, 1928) e The Last Warning (L’ultimo avviso, 1929). E molti altri ne avrebbe girati, se non fosse stato portato via dalla sepsi nel 1929 a soli 44 anni.
Vittorio Renzi (4 ottobre 2015)
The Cat and the Canary (Il castello degli spettri)
Usa, 1927
regia: Paul Leni
soggetto: lavoro teatrale The Bat di John Willard
sceneggiatura: Alfred A. Cohn
fotografia: Gilbert Warrenton
montaggio: Martin G. Cohn
musica: Hugo Riesenfeld
scenografia: Charles D. Hall
produzione: Carl Laemmle, per Universal Pictures
cast: Laura La Plante (Annabelle West), Creighton Hale (Paul Jones), Forrest Stanley (Charles Wilder), Tully Marshall (Roger Crosby), Gertrude Astor (Cecily), Flora Finch (Susan), Arthur Edmund Carewe (Harry), Lucien Littlefield (Ira Lazar), Martha Mattox (bambinaia),
George Siegmann (guardia)
lunghezza: 8 rulli, 7713 piedi
durata: 80′
data di uscita: 9 settembre 1927
[1] Kevin Brownlow, in Le giornate del cinema muto 2004