Vsevolod I. Pudovkin
SINOSSI: E’ la storia di un cacciatore di pelli che diventa un rivoluzionario contro i soldati dell’Armata Bianca (siamo nel 1918-20), viene catturato, fucilato, ma sopravvive e, quando si scopre che è un discendente diretto di Gengis Kahn, si prepara ad essere trasformato in un re-burattino nelle mani delle forze d’occupazione. Infine, egli si ribella di nuovo e torna a condurre la rivoluzione del suo popolo.
Della cosiddetta trilogia rivoluzionaria, questo ci appare come l’episodio più ambizioso e complesso, in cui Pudovkin sperimenta una commistione di temi e di generi finora inedita. La prima novità, naturalmente, è l’ambientazione: la Mongolia e il suo popolo, per la prima volta portati sullo schermo. Il giovane attore protagonista, Valeri Inkizhinov, mongolo, è uno studente di Pudovkin. Lui e suo padre (che interpreta il padre nel film) sono originari della zona in cui il film comincia. Laddove nei primi due film di Pudovkin, Mat (La madre, 1926) e Konec Sankt-Peterburga (La fine di San Pietroburgo, 1927), assistevamo alla parabola morale, al risveglio delle coscienze di alcuni individui inseriti in eventi reali, la parabola del giovane mongolo sembra invece affondare le radici nel mito, dove, a tratti, l’epica ha la meglio sulla realtà. Ed è proprio qui la seconda importante novità messa in atto da Pudovkin: una travolgente commistione di documentario e avventura, con scene degne di un western (genere fra l’altro già presente da diversi decenni, in forma letteraria, nella cultura europea di quel periodo).
Gli elementi documentaristici li ritroviamo, come abbiamo detto, nell’ambientazione stessa del film, nei luoghi reali, con attori mongoli – anziché ricostruiti negli studios con attori truccati da asiatici, come sarebbe accaduto a Hollywood. E, più specificatamente, nei rituali del Buddismo tibetano, che si possono osservare in diverse scene. A cominciare da quella che segue il prologo, in cui un monaco prega per la guarigione del padre del ragazzo, che giace disteso sul letto nella sua tenda, circondato da alcuni anziani che fumano la pipa. Possiamo qui osservare l’uso di alcuni oggetti rituali: il mala, sorta di rosario buddista, il Gantha, una piccola campana, il Chokor (o Ruota della Legge, qui nella sua versione portatile) e un tamburello da preghiera. Fuori dalla tenda campeggia una bandiera che, ci spiega una didascalia, segnala che il lama sta pregando. Il montaggio frantuma la scena della preghiera in vari spezzoni, prevalentemente composti da primissimi piani e dettagli: degli oggetti sopra descritti, del viso (fintamente) concentrato del lama. Il monaco, con le sue occhiate furtive e avide ad una preziosa pelliccia di volpe argentata (recuperata dal giovane protagonista e MacGuffin o motore della trama del film), che alla fine tenterà anche di rubare, è qui dipinto da Pudovkin come un truffatore e un prepotente («Collezionista di offerte per il tempio», ci informa, sarcastica, una didascalia); più tardi vedremo come i monaci buddisti siano ritratti come gli alleati delle forze d’occupazione. In particolar modo nella celebre scena in cui, tramite montaggio alternato, viene accostato il rituale della vestizione del lama al tempio con quello, altrettanto pomposo dei preparativi del Capo delle forze di occupazione e di sua moglie, dal barbiere e dal parrucchiere, e poi l’uniforme di lui che viene pulita accuratamente, gli stivali lucidati, etc. In entrambi i casi, uno sfoggio del potere temporale. Tuttavia, nella lunga sequenza del cerimoniale per la reincarnazione del lama, l’interesse etnologico (ma mai puramente folcloristico) sembra prendere il sopravvento, in una sorta di sospensione del giudizio, un time out ideologico decisamente inedito nei film precedenti.
Nella scena del mercato, dove si raduna la folla della città, ritroviamo il gusto di Pudovkin per l’affresco dei volti. Volti umili, curiosi, sorridenti. Tutti insieme costituiscono il Volto dell’essere umano. Compaiono poi le facce dure e ciniche di due mercanti occidentali: spesso Pudovkin li rappresenta in coppia, un capo e il suo tirapiedi, a significare non solo il servilismo, ma anche, accostandovi l’immagine di quel popolo all’apparenza docile e inerme, la natura predatoria, da catena alimentare, caratteristica del capitalismo. Capitalismo che, per Pudovkin, implica anche il discorso imperialista della superiorità dell’uomo bianco e dunque il razzismo: quando il giovane mongolo viene derubato della sua pelle e, per difendersi, ferisce col coltello il mercante, questi alza al cielo la mano insanguinata e grida «Vendicate il sangue dell’uomo bianco!». Da notare qui come il montaggio decostruisca fino a rendere quasi astratta (inumana) la natura di un tale potere coercitivo: come avveniva nella scena della preghiera del monaco, anche qui un tamburo militare, che segna l’inizio della caccia all’uomo, viene ripreso da più angolazioni con stacchi rapidissimi; stessa cosa avviene, subito dopo, con l’immagine di un ufficiale dell’Armata Bianca a cavallo.
Il giovane fugge sulle montagne e, dopo un incontro fortuito, si unisce ai combattenti rivoluzionari. E qui comincia la parte propriamente western. Epica e lirismo si accompagnano qui, durante le galoppate che ci parlano, oltre che di lotta, anche di avventura: la polvere che si solleva dagli zoccoli dei cavalli, le sparatorie fra le rocce. Non ultimo, il gusto per il paesaggio, con quegli alberi solitari che si ergono sulle cime dei crinali. Pudovkin ne inquadra moltissimi, sedotto, potremmo dire, dal lato avventuroso della lotta. Nell’accampamento dei ribelli, un’altra galleria di volti sorridenti e accoglienti della povera gente, in cui si respirano umiltà e dignità. Il giovane mongolo li osserva, vi si riflette e ritrova se stesso: la sua risata scioglie il suo volto unendolo al grande Volto della rivoluzione. Il culmine lirico si raggiunge nella scena della morte del capo dei rivoluzionari della montagna: steso in terra, con i compagni che vengono a rendergli omaggio uno ad uno, egli infine spira guardando verso una vetta. E, in un controcampo magnifico, l’ennesimo albero solitario, scontornato dalla luce del sole. Un’inquadratura perfetta, di una bellezza apparentemente chiusa in sé, ma che in realtà si erge a metafora di questa lotta per la vita, una vita vera, umana, in un luogo dove dettano legge la polvere del deserto e l’aridità.
Nella sequenza finale, dopo l’uccisione di un ribelle compatriota proprio davanti ai suoi occhi, esplode finalmente la di rabbia del giovane re mongolo (re per un giorno) nei confronti delle guardie del palazzo che inutilmente cercano di contenerlo. Ed è puro cinema cinetico. Avvinghiati nella lotta, il re e due o tre guardie sembra che ballino, mentre tutto intorno a loro ruota, gira, cade, si spezza, si capovolge. Persino le didascalie con le sue urla («Assassini! Ladri!») finiscono nella mischia, in un montaggio spezzettato e caotico. La furia del mongolo erede di Gengis Kahn è paragonata ora al vento che spazza la steppa e non lascia nulla in piedi, pura forza distruttrice. Quel vento, ormai tempesta, altro non è che l’esercito ribelle mongolo a cavallo, guidato dal giovane protagonista (divenuto ora un vero erede di Gengis Kahn, nello spirito!), che cavalca furiosamente verso la battaglia. Ma è un esercito ideale, universale, simbolo di tutti i popoli che nella storia hanno aperto gli occhi e deciso finalmente di spezzare le loro catene.
Vittorio Renzi (7 novembre 2015)
Potomok Chingis-Khana | Потомок Чингис-Хана (Tempeste sull’Asia)
[Storm over Asia]
URSS, 1928
regia e montaggio: Vsevolod I. Pudovkin
soggetto: romanzo di I. Novokshenov
sceneggiatura: Osip Brik
fotografia: Anatoli Golovnya
scenografia: Sergei Kozlovski e M. Aronson
produzione: Mezhrabpom-Rus’
cast: Valeri Inkishanov (Bair), I. Dedintsev (comandante britannico), Aleksandr Chistyakov (cpo dei ribelli russi), Viktor Tsoppi (Henry Hughes), Fyodor Ivanov (lama), V. Pro (missionario britannico), Boris Barnet (soldato inglese con la pipa), Karl Gurnyak (soldato inglese), Bilinskaya (moglie del comandante), I. Inkizhinov (padre di Bair),
Anel Sudakevich (figlia del comandante)
lunghezza: 2605 metri
durata: 127′
data di uscita: 10 novembre 1928