Victor Sjöström
SINOSSI: Un vecchio, che vive in un luogo isolato, nei pressi del mare, ripensa al suo passato. Grimstad, nel sud della Norvegia, 1809: il pescatore Terje Vigen vive felicemente con la moglie e la figlioletta. Ma allo scoppiare delle Guerre Napoleoniche, gli inglesi impongono il blocco navale, destinando la povera gente di Grimstad alla fame. Terje Vigen decide allora di salpare con la sua barca di nascosto, aggirare il blocco e approdare a Skagen, nel nord della Danimarca, per fare approvvigionamento di vivande per la sua gente. Sulla via del ritorno, però, la sua barca viene intercettata dagli inglesi. Nonostante le preghiere di Terje all’inflessibile comandante e Lord inglese, questi gli nega ogni soccorso e lo fa sbattere in galera, dove Terje rimane per anni, fino alla liberazione, nel 1814. Tornato a casa, scopre però che moglie e figlia sono morte di stenti e nella sua casa vive ormai un’altra famiglia. Un giorno, durante una tempesta, Terje, oramai sull’orlo della follia, si ritrova a dover aiutare una nave comandata proprio dal rigido comandante che aveva causato la sua tragedia. Insieme a lui vi sono la moglie e la figlia. Terje brama la sua vendetta, ma, all’ultimo, in lui prevale la pietà.
Nel 1924, dopo il grande successo dei suoi film dei primi anni Venti, Sjöström accettò l’offerta di lavorare a Hollywood. La strategia di Hollywood di combattere la concorrenza straniera “saccheggiando” i maggiori talenti del cinema di tutto il mondo non è un fatto recente, precede anzi l’emigrazione di tutti quei talenti tedeschi e austriaci che hanno reso grandi, in particolare, la commedia e il noir americani dell’epoca classica. La migrazione cominciò (e coincise) con la fine nell’età dell’oro del cinema svedese (1917-1924), quando cioè questo cinema era all’apice del suo successo in patria – complice anche il momentaneo embargo di film stranieri sugli schermi svedesi – e poi in Europa e nel mondo, e vantava almeno due cineasti di rilievo internazionale, come Mauritz Stiller e Victor Sjöström, oltre ad altri nomi di spicco fra produttori, direttori della fotografia e altri membri della troupe (laddove Greta Garbo avrebbe raggiunto la fama soltanto dopo essere giunta a Hollywood, al seguito di Stiller). I motivi principali che resero il cinema svedese così rinomato furono certamente il suo avanguardistico impiego di suggestivi scenari naturali e una forte tendenza al realismo e alla caratterizzazione psicologica dei personaggi. Tutto questo in un’epoca in cui i film, tranne rare eccezioni, erano concepiti in studio e legati ancora fortemente alla pantomima e al palcoscenico. Ma non si trattò solo di questo:
Nessun’altra cinematografia, fino ad allora, aveva pensato di inserirsi nel dibattito culturale al fianco delle altre arti, esprimendo gli stessi concetti. Sul piano internazionale questo accadrà solo dopo la guerra, con le avanguardie russe e tedesche, per le quali il cinema svedese rappresentò sicuramente un esempio di cui tener conto.[1]
Il titolo generalmente ritenuto l’apripista dell’età dell’oro del cinema svedese è proprio Terje Vigen, con la sua potenza visiva, i suoi panorami marittimi e la tragedia di un uomo in lotta con se stesso. Un vero e proprio poema per immagini in cui il paesaggio «per la prima volta sullo schermo assumeva la funzione drammatica di contraltare alla vicenda dei personaggi, esso stesso elemento fondamentale della costruzione narrativa»[2]. Anche se, a bene vedere, diversi elementi tematici e stilistici, oltre all’ambientazione prevalentemente marina, comparivano già in un film dell’anno prima, uno dei pochissimi ad oggi sopravvissuti della prima fase della carriera di Sjöström, Havsgamar (The Sea Vultures, 1915): anche qui il protagonista è un uomo anziano che vive su una piccola isola e fa il contrabbandiere, ma con scopi molto meno nobili rispetto a Terje. Detto questo, le somiglianze terminano qui, sembra anzi incredibile che fra i due film corra solo un anno, tanto sono diverse la cura, l’ispirazione e la maturità del secondo rispetto al primo. C’è da dire che, fino a tutto il 1915, Sjöström – così come Stiller e altri registi della Svenska – dirigevano anche sei o sette film all’anno, per lo più film di due o tre bobine; fu solamente a partire dal 1916 che produttore della Svenska Bio, Charles Magnusson, decise che era meglio puntare su un numero minore di film, ma a lungo metraggio e accuratamente realizzati.
All’inizio di quell’anno, Sjöström si prese una vacanza e si recò nel sud della Norvegia, dove aveva vissuto da piccolo con i genitori per un certo periodo. Visitò quei luoghi e ne rimase impressionato: proprio lì Henrik Ibsen, originario di quella regione, aveva scritto e pubblicato nel 1842 il poema Terje Vigen, ispirato, pare, alle vicende di un marinaio che lo scrittore aveva conosciuto personalmente. Poema destinato a collocarsi fra i più grandi capolavori della letteratura scandinava. Magnusson, con cui Sjöström lavorava da anni, gli aveva proposto poco prima di realizzarne un adattamento cinematografico, ma il regista non era molto convinto. Tuttavia, nel momento in cui si trovò a visitare in quei luoghi, ne fu talmente colpito che cambiò idea e accettò con grande entusiasmo di realizzare il film. Per la stesura dello scenario, Sjöström si fece aiutare da Gustav Mollander, che di lì a pochi anni sarebbe passato dietro alla macchina da presa. Il budget predisposto fu altissimo, 60.000 corone, oltre il doppio di quello di un normale film di quei tempi, il rischio perciò era alto. La lavorazione durò ben tre mesi. Ma l’accoglienza del film, da parte di critica e pubblico, fu straordinaria sia in patria che all’estero e il regista, al suo trentesimo film, fu accolto da alcuni recensori come il più grande cineasta del mondo.
Come in molti altri film da lui diretti, anche qui Sjöström ricoprì il ruolo di attore protagonista. Se la sua recitazione appare qui, a tratti, più declamata e “gridata” che altrove, è forse proprio perché, sulla scia dell’opera di Ibsen, egli mira a fare delle vicende di Terje Vigen qualcosa di più che il dramma individuale di un pescatore: la parabola di un uomo, di tutti gli uomini, quando lottano per qualcosa di più grande dei loro interessi personali e finiscono per scontrarsi inevitabilmente con l’arroganza e la rigidità del potere costituito. E il suo desiderio, come regista, è quello di comporre un poema principalmente visivo: ecco dunque che le didascalie propongono, sì, alcuni dei versi del poema di Ibsen, ma non nella sua forma completa. Il resto è lasciato alle immagini, in particolar modo le immagini di questo paesaggio incredibile che si pone a metà strada tra fisico e metafisico, come avverrà poi l’anno successivo con le montagne e la neve di Berg-Ejvind och hans hustru (I proscritti, 1918). Perciò, se anche qui la macchina da presa è per lo più fissa, “in osservazione”, come in Ingeborg Holm (1913), questa fissità non fa che accrescere il pathos delle scene.
E se mancano ancora le sperimentazioni audaci e la complessità narrativa di Körkarlen (Il carretto fantasma, 1921), qui a rimanere impresso è l’incontro/scontro fra uomo e mare, lo stagliarsi della fragile figura umana in controluce contro quella silenziosa, rilucente immensità. In una ripresa apparentemente di raccordo, ma in realtà fortemente espressiva, Sjöström inquadra per alcuni secondi le onde che s’infrangono sugli scogli. Un’immagine che, priva della presenza umana, sembra scandire lo scorrere imperturbabile del tempo. Sembra anzi l’immagine del tempo stesso. E il mare qui è onnipresente: la sua funzione è di fornire nutrimento agli esseri umani (la pesca) o di isolarli e condannarli alla miseria e alla fame (in seguito al blocco imposto dagli inglesi) o, ancora, di offrire loro rifugio e protezione (Terje si salva dalle pallottole inglesi nuotando sott’acqua). La sua stessa natura ambivalente e imprevedibile lo rende simile ai capricciosi dei dell’antica Grecia che giocavano con il fato degli esseri umani. E’ dunque di volta in volta il vero protagonista/antagonista/deuteragonista del film, come lo sarà molti anni dopo in Finis Terræ (1929) di Jean Epstein, anche se in una chiave meno “tragica” e più realistica (ma comunque lirica).
La capacità di Sjöström di mettere in risalto il paesaggio norvegese e il grande successo del film fecero sì che l’industria cinematografica della Norvegia, fino a quel momento praticamente inesistente (bisogna anche considerare che il Regno si era reso autonomo dalla Svezia solo 11 anni prima), si risvegliasse e cominciasse a porre le basi di una propria cinematografia nazionale, per quanto esigua.
Edith Erastoff, che fu l’amante di Sjöström e, successivamente, sua moglie, compare qui in un ruolo secondario, quello della moglie del capitano inglese. La ritroveremo protagonista l’anno successivo del già citato Berg-Ejvind och hans hustru, sempre a fianco di Sjöström.
Le splendide tinte del film del DVD della Kino sono state ricavate da una copia nitrato colorata ritrovata nel 2004, da cui è stato ricavato un duplicato negativo in bianco e nero, successivamente ricolorizzato mediante il metodo Desmet.
Vittorio Renzi (19 gennaio 2016)
[1] Vincenzo Esposito, La luce e il silenzio. L’età d’oro del cinema svedese, Napoli, L’Ancora, 2001, p. 93.
[2] Gianni Rondolino, Storia del cinema, Torino, UTET, 1995, p. 104.
Terje Vigen (C’era un uomo)
[A Man There Was]
Svezia, 1917
regia: Victor Sjöström
soggetto: poema omonimo di Henrik Ibsen
sceneggiatura: Gustaf Molander
fotografia: Julius Jaenzon
scenografia: Axel Esbensen
costumi: A. Bloch
produzione: Charles Magnusson, per Svenska Biografteatern
cast: Victor Sjöström (Terje Vigen), August Falck (il signore), Edith Erastoff (la signora), Bergliot Husberg (signora Vigen), William Larsson,
Gucken Cedeborg, Olof Ås
durata: 56′
data d’uscita: 29 gennaio 1917