Abwege (Crisi, 1928)

Georg W. Pabst

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SINOSSI: Robert Storner, avvocato giovane ma già affermato, è sposato con Irene. Ama sua moglie, la crede soddisfatta del loro tenore di vita e, preso dal suo lavoro, la trascura. La giovane donna si annoia, è infelice, si sente prigioniera di quella situazione. Per sfuggire alla solitudine, lei stringe amicizia con la frivola e sensuale Liane, che le presenta un artista squattrinato, Walter Frank. Mentre le due amiche parlano, Walter disegna furtivamente un ritratto di Irene. Colpita da questo fatto, giorni dopo lei si reca nel suo studio e scopre molti altri suoi ritratti. I due decidono di partire insieme per Vienna. Ma Robert, scoperto il loro piano, intercetta alla stazione Irene e la riporta a casa con sé. Lasciata nuovamente sola, Irene raggiunge Liane in un chiassoso locale e lì sfoga tutta la sua frustrazione, ma infine decide di tornare dal marito. Robert però la accoglie freddamente e così la ragazza si precipita a casa di Walter e i due si baciano, ma sopraggiunge il marito. Alla fine, proprio quando sono sul punto di divorziare, i due giovani sposi ritrovano l’amore.

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Girato nel 1928, immediatamente prima del suo film più famoso, quel Die Büchse der Pandora (Lulù – Il vaso di Pandora, 1929) con cui impose al mondo Louise Brooks, Abwege rientra nei grandi film dimenticati del regista boemo. Si tratta di un Kammerspielfilm – letteralmente “dramma da camera” di impostazione realista – che ha, come centro tematico, la crisi del matrimonio. E Crisi fu, di fatto, il titolo con cui il film venne distribuito in alcuni paesi. Non solo un dramma borghese, ma un dramma sulla borghesia, in cui al binomio amore/matrimonio viene accostato quello noia/eccitazione. Questa corrispondenza, più che effettiva, è l’espressione della crisi di Irene, arrivata a un certo punto della sua vita matrimoniale. E’ espressione della sua paura di perdere l’amore, ovvero, che nella sua vita non ci sia più posto per l’amore. E, accanto all’amore, la passione, l’erotismo. Quell’erotismo che appare schiacciato dal peso di un’istituzione troppo solida, troppo sicura. Non sembra esserci più spazio per l’imprevisto, per il brivido.

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E di momenti erotici il film è costellato. Il polo dell’erotismo è rappresentato in primis da Liane, l’amica di Irene. Nella già citata lunga sequenza del locale notturno (che occupa tutta la parte centrale del film), qualcuno lancia l’oliva di un Martini nell’ampia scollatura posteriore del suo vestito. Liane domanda all’uomo timido e occhialuto seduto al suo tavolo di togliergliela. Ma l’uomo si imbarazza e rifiuta. A quel punto un’amica di Liane le infila la mano nella scollatura e poi porge l’oliva all’uomo. Le due si guardano e ammiccano, complici. L’uomo chiaramente si eccita e, non appena lei si volta a guardare la gente che danza, le tira nuovamente l’oliva nella scollatura. Liane si finge sorpresa, e poi lascia che lui vada in cerca dell’oliva nella scollatura. Lei si volta verso la macchina da presa e, in primo piano, sorride vittoriosa. Poco dopo Irene, che si era messa a ballare per far ingelosire il suo corteggiatore, torna furiosa al tavolo, e mentre parla con Liane, un giovane le bacia l’incavo del braccio. Lei non sembra neanche accorgersene.

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Successivamente, Irene è al tavolo ubriaca, la testa ciondolante, ed è raggiunta da una donna (Ilse Bachmann), che abbiamo visto inquadrata, di tanto in tanto, per tutta la scena. Una donna dall’aria inquietante, visibilmente alterata dall’alcool e dalle droghe. Irene la fissa con orrore e sgomento, come se, inconsciamente, contemplasse in lei una possibile direzione della sua stessa esistenza. Ma subito dopo la segue in una stanza il cui interno è celato da una tenda. Poco dopo, Irene verrà a sapere da Liane che quella donna, tale Anita, era la moglie di un ricco banchiere il quale si era suicidato per via della condotta della donna. Un volto che per Irene rappresenta dunque, al tempo stesso, la vertigine della perdizione e il senso di colpa. Quelli descritti sono solo alcuni momenti di una lunga sequenza che si fa sempre più caotica e delirante, nella quale Pabst fa percepire nettamente, attraverso la scelta delle inquadrature, la luce e il montaggio, gli effetti dell’alcool e della droga sulla mente sempre più agitata di Irene.

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In una scena successiva, Irene e Robert sono in casa. Si sono riappacificati e stanno per fare l’amore, come possiamo intuire dal fatto che lei lo aspetti distesa languidamente sul letto; ma poi il marito scorge un pupazzo dalle oscene fattezze di un pugile col petto villoso, che qualcuno degli amici di Irene le ha portato a casa dal locale, e diventa freddo come il marmo. Lei si alza, gli si avvicina, tenta di farsi capire, ma lui è irremovibile nel suo disprezzo. A quel punto, Pabst stringe sul volto la donna, la cui passione è ora spenta in una maschera di cupa rassegnazione (magnifica Brigitte Helm in questa scena e, a parte qualche ridondanza espressiva, anche nel resto del film), mentre si distacca dall’uomo e cammina verso un’altra stanza. La macchina da presa carrella all’indietro mentre lei avanza come un automa: un movimento di macchina di grande modernità, che sottolinea con forza lo stato d’animo di Irene in quel preciso momento. Un momento di grande, grandissimo cinema, che vale più di mille righe di dialogo.

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Infine, un’ultima scena dove l’erotismo è usato per ferire. Irene è a casa di Walter, il pittore. E’ disperata e furiosa a causa del rifiuto del marito. I due si abbracciano e si baciano. Ma ecco che Robert bussa alla porta. Walter si avvicina alla porta e Irene, in un accesso d’ira, si toglie i vestiti e ordina al suo amante di aprire la porta. Quando il marito compare sulla soglia, lei rimane lì in piedi, al centro della stanza, in sottoveste, a fissare il marito scioccato con aria di sfida.

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Il lieto fine, che vede, nelle ultimissime immagini, la riappacificazione dei due giovani coniugi, non sopperisce minimamente al clima di totale instabilità e alle crepe aperte a colpi d’ascia da Pabst sulla più borghese delle istituzioni.

Brigitte Helm aveva già lavorato per Pabst l’anno prima in Die Liebe der Jeanne Ney (Il giglio delle tenebre, 1927), lo stesso anno in cui era stata proiettata, ancora esordiente, nel firmamento del cinema da Metropolis (1927), di Fritz Lang. Nel 1932, agli albori del cinema sonoro, tornò su un set di Pabst per la terza ed ultima volta, quello de L’Atlantide, in cui era la algida e inquietante regina degli abissi, Antinéa.

Vittorio Renzi  (7 dicembre 2014)

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Abwege (Crisi)

[The Devious Path]

Germania, 1928

regia: Georg Wilhelm Pabst

soggetto: Franz Schulz

sceneggiatura: Adolf Lantz, Ladislaus Vajda, Helen Gosewisch

fotografia: Theodor Sparkuhl

montaggio: G.W. Pabst, Marc Sorkin; Paul Falkenberg (assist.)

musica: Werner Schmidt-Boelcke

scenografia: Otto Erdmann, Hans Sohnle

costumi: Modellhaus Mahrenholz, A. Wolff

produzione: Fred Lyssa, per Erda-Film GmbH

distribuzione: Deutsche Universal Film Verleih GmbH 

cast: Brigitte Helm (Irene Beck), Gustav Diessl (Thomas Beck), Hertha von Walther (Liane), Jack Trevor (Walter Frank), Fritz Odemar (consigl. Möller), Nico Turoff (Sam Taylor, il pugile), Ilse Bachmann (Anita Haldern), Richard Sora (André), Peter Leska (Robert), Irm Cherry (Daisy), Irma Green (Gina)

lunghezza: 7 rulli, 2199 metri [orig. 2303]

durata:  98’

data di uscita: 5 settembre 1928

Abwege poster

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